2017-06-05 13:48:00

50 anni fa la Guerra dei sei giorni: problemi tuttora irrisolti


Cinquant'anni fa, il 5 giugno del 1967, scoppiava la Guerra dei sei giorni, che sarebbe riuscita in poche ore a modificare la storia del Medio Oriente. La vittoria militare israeliana contro i vicini arabi Giordania, Siria ed Egitto, creò una potenza regionale in grado di controllare Gerusalemme, la Cisgiordania, Gaza e le alture del Golan. Quanto e come dunque quei sei giorni influenzano ancora oggi quella zona? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Giorgio Bernardelli della rivista “Mondo e Missione” ed esperto dell’area:

R. – Pesano ancora tantissimo. In un certo senso si può dire che quei sei giorni non sono mai finiti, perché hanno plasmato la geografia e hanno lasciato un segno profondo anche nella stessa mentalità e percezione di tutto quello che è il conflitto tra israeliani e palestinesi. È interessante che proprio negli stessi giorni in cui avveniva quel conflitto, all’interno del governo di Israele ci si poneva una serie di domande che esistono tuttora: che cosa fare della Cisgiordania, se annetterla a Israele oppure no; quale soluzione politica per i palestinesi.

D. – Perché da allora è partito tutto, anche questo aspetto?

R. – Quella mancanza di apertura di un canale diplomatico di dialogo che facesse i conti con la realtà sul terreno ha innescato una serie di movimenti a catena che rendono oggi molto più difficile la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Anche perché tutto il risveglio dell’islamismo, l’islamismo radicale, il grande ritorno dei Fratelli Musulmani, tutto nacque dopo il 1967, dopo la sconfitta del sogno del panarabismo sostanzialmente come ideologia laica e socialista, e, ancora, dopo la Guerra del 1967 arrivò al governo di Israele per la prima volta la destra nazionalista.

D. – E quei nodi irrisolti, di cui lei parla, sono quelle espressioni usate allora e che tuttora usiamo: occupazione; capitale unica e indivisibile; territori. Sono questi?

R. – Sì. Ovviamente dietro alle espressioni ci sono scelte politiche ben precise. La prima, quella probabilmente più importante da cui tutto il resto discende, è: che cos’è Gerusalemme?

D. – Lo stesso peso direi ha anche tutta la questione legata agli insediamenti: anche questo è un percorso che continua a crescere nel tempo ma non si risolve?

R. – Ormai in 50 anni sono diventati qualcosa di talmente grande che credo che uno degli errori sia continuare a considerarlo come un blocco complessivo e uniforme. Ci sono alcuni insediamenti fortemente ideologizzati, ma ci sono anche altre realtà in cui gli insediamenti sono semplicemente il prolungamento di città che stanno a cavallo della linea verde. Per cui credo che oggi una delle strade per riuscire a trovare un bandolo sarebbe cominciare anche a guardare dentro a questi insediamenti.

D. – E guardando invece all’embargo in cui è stritolata Gaza?

R. – Non è realistico, anzi è estremamente pericoloso. Tenendo presente anche un’altra cosa: Hamas ha perso molti degli appoggi politici che aveva nella Regione. Il fatto di non aver colto questa situazione come un’opportunità per trovare una formula che permettesse a questa realtà di uscire semplicemente dallo stato di sopravvivenza e voltare pagina, credo che sia stato un errore molto grave.

D. – Immagino che anche la Palestina sia cambiata profondamente in tanti anni?

R. – Questo è veramente uno dei problemi più grandi. Io vedo una grossa crisi generazionale, una disillusione totale da parte dei giovani palestinesi; e quando c’è una generazione così, la domanda è: che cosa stiamo preparando? E da qui anche l’importanza di riscoprire la centralità di questo problema: tra Israele e Palestina c’è una ferita che in 50 anni non è stata rimarginata. Invece, da parte soprattutto della comunità internazionale, c’è la tentazione di normalizzare la situazione.

D. – Qual è il passo da compiere per andare oltre quel giugno del 1967?

R. – Oggi credo che la prima questione sia de-ideologizzare questa questione del conflitto e andare a vedere quali possono essere le soluzioni che creano futuro perché – appunto – finché la prospettiva del negoziato sarà sempre quella del ragionare solo sulla grande soluzione definitiva, che porterà fine ai problemi, credo che difficilmente faremo dei passi avanti.








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