2017-03-23 13:38:00

Seminario a Roma: l'impegno della Chiesa contro gli abusi su minori


Sviluppare e implementare programmi rigorosi di tutela dei più vulnerabili dagli abusi sessuali in ambito ecclesiale, con particolare attenzione alla situazione nell’America del Sud. Questo l’obiettivo del Seminario educativo organizzato oggi a Roma dalla Pontificia Commissione per la Protezione dei Minori in collaborazione con il Centro per la tutela dei minori dell’Università Gregoriana. Filo conduttore: l’educazione delle persone, in modo da cambiare i loro cuori e le loro menti. Il servizio di Gabriella Ceraso:

Il nostro è un lavoro che non permette di “essere indulgenti” ma che richiede "condivisione di risorse e conoscenze", oggi abbiamo l'occasione di farlo. Così in sintesi il cardinale Sean O’ Malley, presidente della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, voluta dal Papa nel 2014, aprendo il dibattito alla Gregoriana. Dall’Argentina alla Colombia, dal Messico all’ Australia e all’Italia sono state messe a confronto le buone pratiche già in atto, specie nelle scuole e negli istituti ecclesiastici, nel rispetto delle linee guida episcopali, ma calate, e questa è la difficoltà maggiore, in contesti linguistici, culturali e politici molto diversi. Il lavoro compiuto dall'inizio dell'anno in tre diocesi della Colombia, con équipes di specialisti, è stato raccontato dal vescovo ausiliare di Bogotá, mons. Luis Manuel Alì Herrera:

R. - Abbiamo visitato tre arcidiocesi della Colombia: quella di Cali, quella di Villavicencio e quella di Bogotá. Lì abbiamo fatto un workshop con i preti, con i seminaristi. Abbiamo visitato anche alcune di queste istituzioni cattoliche che lavorano con i minorenni. Ad esempio, a Bogotá abbiamo fatto un lavoro molto interessante con tutti coloro che lavorano nelle scuole cattoliche, nelle parrocchie e che svolgono un lavoro come catechisti, come educatori e professori. La visita a Villavicencio è stata molto interessante, perché lì ci sono molti collegi dove i bambini vivono insieme perché sono in campagna. Molti di questi ragazzi sono immersi nella guerriglia; perciò la Chiesa fa un lavoro molto interessante con loro perché fanno studiare  insieme ad altri ragazzi che non vivono questa situazione.

D. - Cosa la preoccupa di più della realtà che ha visto e qual è la sua speranza parlando di tutela dei bambini?

R. - Noi abbiamo vissuto una guerra lunga 51 anni; per questo diciamo che c’è una “naturalizzazione” di questa violenza sessuale contro i bambini. Questa è la preoccupazione più grande e la nostra sfida più grande. Penso sia la nostra prima sfida.

D. - E le speranze, queste linee guida ad esempio, come vi possono aiutare nel contesto della Colombia?

R. -  Non soltanto all’interno dell’istituzione cattolica, ma si può fare un lavoro insieme alla società civile colombiana per fare una scelta molto approfondita per la protezione dei bambini nelle nostre istituzioni.

D. - Cosa serve di più? Protezione, spiegazione, educazione, coinvolgimento delle famiglie …

R. - Due cose soprattutto: la prevenzione e il coinvolgimento delle famiglie, perché nella nostra società colombiana il 93 percento delle violenze sessuali contro i minorenni accade all’interno della famiglia. Ad esempio, un programma che noi vogliamo organizzare è un workshop per le famiglie, per i padri, per i genitori, ma all’interno delle nostre parrocchie. Questo sarà uno dei nostri programmi “bandiera”.

D. - Il cardinale O’Malley parlando dell’America del Sud, ha detto che è il continente della speranza. Perché?

R. - Perché noi abbiamo moltissime risorse, non soltanto naturali ma anche spirituali; una speranza che si vede nella gente, una speranza che si vede all’interno delle nostre chiese, delle nostre parrocchie. Alla base ci sono tantissime persone che vogliono fare qualcosa di più e sono molto attirate da questa idee di Papa Francesco di essere nelle periferie esistenziali per riportare il Vangelo, come Cristo ha fatto duemila anni fa.

D. - A settembre il Papa sarà da voi. Che tipo di realtà presenterete? Che cosa vi piacerebbe che questo Papa vedesse del vostro Paese, capisse, conoscesse?

R. - Vogliamo mostrare al Papa non la bella città, ma anche la città che soffre, questa città povera. Ad esempio, Cartagena è una città turistica, ma è una città che soffre la situazione della tratta delle persone, la situazione dei bambini poveri, delle famiglie povere. È questo ciò che vogliamo mostrare al Santo Padre. Noi come Chiesa vogliamo essere lì dove queste persone vivono, in queste periferie esistenziali ma anche geografiche.

Dei risultati ottimi dati dalla collaborazione tra Istituzioni, per esempio tra Questura, Diocesi e scuole di Foggia, ha parlato il Direttore tecnico e capo psicologo della questura della città pugliese, il dottor Giovanni Ippolito. "Con workshop tra insegnanti e incontri particolari con i bambini, abbiamo ottenuto aumento della consapevolezza e della libertà di espressione e di denuncia, su una piaga umana e non solo cattolica o ecclesiastica":

R. – Attraverso l’utilizzo di immagini dove facevamo vedere quelli che potevano esseri i rischi e quali potevano essere gli abusi, i maltrattamenti, da parte di una persona adulta, molo spesso capitava che i bambini involontariamente dicevano e raccontavano la loro storia anche davanti ad altri bambini. È un fenomeno molto particolare che ci ha permesso di raccogliere maggiori richieste di aiuto e di sostegno perché ci rendevamo conto che, già durante l’intervento, loro dicevano: “Ma è capitato anche a me!”, vergognandosi immediatamente dopo averlo detto. Quindi era un bisogno irrefrenabile di raccontare il loro evento. Cosa è successo inoltre? Gli insegnanti - che a volte vedono dei segnali, non solo a volte non riescono ad indentificarli, ma hanno un po’ il timore di esagerare nella propria valutazione - durante tutto il periodo di attività di prevenzione all’interno delle scuole, facevano più volentieri le segnalazioni e quindi si creava questo legame tra Polizia e insegnanti che favoriva le segnalazioni, segnalazioni a volte semplicemente di disagio, di incuria, di maltrattamento psicologico che prima, però, non riferivano. Quindi la presenza sul territorio da parte nostra, della Polizia di Stato, del personale dell’Ufficio minori, permetteva una maggiore collaborazione da parte degli insegnanti che avevano una maggiore attenzione rispetto ai bambini e assumevano anche maggiori responsabilità, perché a volte un insegnante dimentica che nelle sue mansioni è anche un pubblico ufficiale e se ci sono dei segnali di disagio, vanno assolutamente interpretati o comunque va fatto un intervento. È vero che alcuni segnali di disagio possono nascondere un disagio generico, non per forza un abuso o un maltrattamento, ma vanno assolutamente contestualizzati. Se posso fare un esempio, succedeva che i bambini facevano attività ad esempio compulsive in classe, quindi toccarsi le parti intime, e l’insegnante pensava fosse un’attività così, legata alla crescita. Effettivamente se l’attività è particolarmente compulsiva è comunque un segnale di disagio. Quindi a volte non c’era la capacità di individuare o comunque di interpretare bene, ma c’era anche il timore di raccontarlo. Invece ora si sono aperte delle possibilità in più per loro di avere meno remore per segnalare e,  er i bambini, di individuare prima l’abuso o quello che gli stava succedendo, perché poi i bambini più a rischio, quelli che hanno più difficoltà, quelli che hanno poche attenzioni da parte delle famiglia, sono quelli che più facilmente cascono nella trappola, perché non sanno riconoscere i segnali di abuso. Questo invece ci ha permesso di far riconoscere anche a questi bambini la differenza tra una carezza buona e una carezza cattiva, un’attenzione sana e un’attenzione insana.

D. - Quindi il vostro lavoro, in un ambito in cui la Chiesa soprattutto sottolinea quanto è importante spiegare quali sono i pericoli, ma come riconoscerli, come proteggersi, a chi chiedere aiuto, la vostra esperienza è fondamentale …

R. - Fondamentale anche perché abbiamo visto addirittura nell’anno in cui abbiamo fatto l’attività più intensa nelle scuole, c’è stato un aumento del 50 percento di denunce. Quindi è stato individuato un numero maggiore di situazioni di rischio. Questo vuol dire che evidentemente l’attività ha funzionato, perché il bambino si apre più facilmente alla polizia o eventualmente all’insegnante, perché poi viene in qualche modo colpito dal racconto che noi facciamo nella scuole e, se non riesce nell’immediatezza, poi comunque il peso che si porta legato al segreto che ottiene il pedofilo - per ricatto o comunque perché raccoglie in qualche modo la fiducia della vittima  -, diventa un peso insostenibile quando qualcuno gli parla di quegli eventi. E lì incomincia a riflettere sul fatto che è una cosa che possono raccontare. Non si devono vergognare e non devono aver paura.

Approcci diversi ma strategie comuni,quelle rilanciate dal Seminario: fare educazione e training tra laici ed ecclesiastici, fare screening di tutti quelli che hanno a che fare con i minori e arrivare alla creazione di ambienti protetti.Tutti devono sapere che i rischi di abusi ci sono, hanno certe caratteristiche e si può dare sempre una risposta alle vittime.








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