2017-03-21 14:32:00

Il Papa a San Vittore. Don Marco, il cappellano: i detenuti aspettano un amico


“Aspettando un amico”, è il titolo della preghiera distribuita in questi giorni ai detenuti del carcere di San Vittore a Milano, e che bene rappresenta lo stato d’animo di chi, dentro quello mura, è in attesa della visita del Papa il prossimo 25 marzo. Una visita inattesa di un amico, “che insegna a sperare”, i cui “passi - recita la preghiera – s’intrecciano ai nostri e percorrono con noi dolori e distanze”. Roberta Gisotti ha intervistato don Marco Recalcati, da quattro anni cappellano dell’Istituto di pena.

D. Don Marco, cosa può rappresentare questa visita per i detenuti? Il Papa, sappiamo, resterà con loro un paio d’ore. Ma cosa può precedere e cosa può seguire a questo tempo breve rispetto alle lunghe giornate, i mesi, agli anni, che queste persone devono passare in carcere?

R. – Sicuramente un momento di grande gioia, di grande entusiasmo da parte di tutti i detenuti. C’è una grande attesa non solo tra di loro, ma anche tra il personale della struttura, di poter avere questa opportunità. Una visita che stiamo accompagnando attraverso alcuni interventi nelle Messe della domenica, nelle catechesi, nei momenti religiosi durante la settimana, ascoltando le parole straordinarie di Papa Francesco ma anche quelle mitiche di Papa Giovanni XXIII, che quando andò per la prima volta nel carcere di Regina Coeli usò quell’immagine bellissima e disse: “sono venuto a mettere i miei occhi nei vostri occhi, il mio cuore vicino al vostro cuore”. Ecco, rileggere questo passaggio del Papa a San Vittore, anche attraverso questo magistero che esprime una forza, una speranza di cui c’è bisogno proprio perché a volte sono tanti gli anni e i giorni sono comunque lunghi in carcere e dare una prova di speranza, è ciò che fa respirare le persone che vi sono recluse. Questa è la preparazione che stiamo facendo. Il dopo lo affidiamo allo Spirito Santo e alla Provvidenza, per raccogliere il frutto delle sue parole, i tanti pensieri che poi i detenuti ci porteranno.

D. - Don Marco, sono state anticipate dalle stampa alcune lettere al Papa dei detenuti. Qualcuno scrive: “Ciao Francesco, sei un fratello …” o “Caro Papa, non sono molto credente …”; un altro detenuto chiede preghiere per i suoi fratelli musulmani. Cosa unisce questi spaccati di vita?

R. - Noi stiamo sperimentando una specie di ecumenismo e dialogo religioso dal basso. L’esperienza della condivisione delle fedi in carcere rimane abbastanza semplice. Così capita che i musulmani cercano il sacerdote per una chiacchiera, per un colloquio e noi li sosteniamo, e ci capita di dare anche preghiere in arabo oppure il Corano perché possano comunque pregare. Una cosa molto bella è che il carcere ti impegna - anche per me è stato fondamentale - a tenere i piedi per terra. Per cui anche queste parole che sembrano così semplici – il detenuto che si rivolge al Papa scrivendo: “Ciao Francesco” – sono il segno di questa grande vicinanza che il Papa ha saputo cogliere di chi è in carcere, di chi lo vuole incontrare.

D. - Una visita che comunque aprirà una finestra su un mondo ancora oggi troppo isolato …

R. - Certo. L’esperienza del carcere credo che per la maggior parte delle persone venga vissuto come qualcosa di completamente assente dalla propria vita. Per cui è facile dividere – i buoni fuori e dentro i cattivi –,  poi la realtà è molto più complessa. È vero che le persone che sono dentro sono persone fragili, che hanno compiuto dei reati, per cui c’è una responsabilità che non può essere nascosta,  ma rimangono persone, uomini e donne, quindi riescono ad esprimere anche quelle potenzialità meravigliose presenti nel cuore di ogni uomo, donna, di ogni persona. È quindi giusto avere una cura per tutte le persone, anche quelle più fragili, quelle segnate da un’oggettiva traccia di male; non si può minimizzare, però questo non nasconde un’umanità che rimane aperta alla speranza, ad un futuro, ad un miglioramento.








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