2017-02-08 14:15:00

La Somalia guarda al futuro: i deputati eleggono il Presidente


Ingenti misure di sicurezza oggi in Somalia, dove oggi 275 deputati e 54 senatori, dopo tanti rinvii, votano per la scelta del Presidente tra 22 candidati. Sede delle elezioni è l’aeroporto di Mogadiscio, ritenuto la zona meglio difendibile da eventuali attentati, soprattutto dei miliziani islamisti al Shabaab. Nel Paese opera ancora la missione dell’Unione Africana, Amisom. Il voto è stato preceduto da una serie di attacchi nella capitale e nella regione del Puntland. Sull’importanza del voto, Giancarlo La Vella ha intervistato il padre comboniano, Giulio Albanese, direttore delle riviste delle Pontificie Opere Missionarie:

R. – Noi stiamo parlando di un Paese in cui di fatto non c’è lo Stato di diritto, non fosse altro perché le autorità internazionalmente riconosciute a livello politico controllano pochi scampoli di territorio. Comunque il nuovo Presidente sarà un po’ la cartina tornasole di quello che è il feeling all’interno del parlamento, dopodiché il cammino continuerà ad essere sempre in salita, perché si tratta di una società a dir poco parcellizzata.

D. – Quanto influisce il rischio di attentati in questo momento, non solo per le elezioni, ma per la ricostituzione istituzionale del Paese?

R. – Gli attentati appartengono in Somalia alla quotidianità. Questo Paese è ostaggio dei violenti. Sappiamo bene che ci sono gli al Shabaab, che rappresentano l’ala radicale delle ex-corti islamiche. La verità è che ci sono condizionamenti di vario genere, perché dal versante mediorientale continuano ad arrivare forniture di armi e munizioni di vario genere e gli sponsor sono davvero tanti. Ognuno di questi governi, in una maniera o nell’altra, ha il proprio candidato e naturalmente ha finanziato questo o quel personaggio con l’intento in una maniera o nell’altra di affermare i propri interessi. Ora la verità è che la Somalia è senza Stato dalla caduta del regime di Siad Barre nel ’91 e questa situazione di instabilità si sta procrastinando nel tempo. C’è una variabile in tutto questo ragionamento ed è rappresentata dall’era Trump: non si sa se la Somalia verrà lasciata abbandonata a sé stessa o se invece continuerà a esserci un interesse in funzione antiterroristica.

D.  – Il vecchio territorio della Somalia di fatto oggi è diviso in tre realtà: il Somaliland, il Puntland e la Somalia con capitale Mogadiscio. Dialogano queste tre realtà?

R. – Un dialogo c’è, ma certamente questa è una realtà territoriale, che è stata in passato e continua a essere ostaggio dei cosiddetti “war lords”, i “signori della guerra”. Il problema di fondo però è che effettivamente manca la capacità di saper fare sistema e, sebbene ci sia una società civile che in una maniera o nell’altra vorrebbe affermare il riscatto, vorrebbe voltare pagina, continuano ad esserci forti condizionamenti che provengono dall’estero. E qui il riferimento, direi esplicito e diretto, va sicuramente ai Paesi del Golfo, alle cosiddette petromonarchie, ma poi, non dimentichiamo, c’è anche il Sudan. Per cui le divisioni rispondono ad una logica, quella del “divide et impera”, anche perché non dimentichiamo che l’oggetto del contenzioso è rappresentato dalle commodities: petrolio, gas naturale, uranio. Questo è un Paese che ha delle risorse nel sottosuolo non indifferenti, addirittura offshore: c’è tanto petrolio tra la sponda yemenita e quella somala. Tutte queste ricchezze paradossalmente rappresentano non solo un fattore altamente destabilizzante, ma davvero una sciagura, perché hanno scatenato appetiti soprattutto da parte dei potentati stranieri.








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