2017-01-14 15:15:00

Libia: urgente risolvere le profonde divisioni nel Paese


Sempre più caotica la situazione in Libia, dove al rischio di una guerra civile, si aggiunge quello dell’aumento del flusso dei migranti: ieri un barcone è naufragato a 30 miglia a nord dalle costa e solo 4 persone si sono salvate. Dal punto di vista politico, il Paese è spaccato in due fra i governi di Tripoli e Tobruk, con il quale, vorrebbero allearsi i golpisti guidati dall’ex premier Ghwell per formare un esecutivo congiunto. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali: 

R. – Finché la comunità internazionale non riesce ad adottare una linea strategica univoca, le possibilità e i tentativi di pacificazione vengono affidate soprattutto all’azione dei singoli attori. In questo l’Italia prova a fare il suo ruolo dal 2011 attraverso accordi con il governo di al Sarraj, l'esecutivo internazionalmente riconosciuto; accordi che mirano non soltanto a cercare di trovare una quadratura del cerchio in Libia, ma anche a diminuire quelle criticità di sicurezza, che possono poi colpire il territorio italiano, in primis la questione dei traffici degli esseri umani e dell’immigrazione clandestina.

D. - Dove sono falliti i tentativi che hanno cercato di ricomporre questa divisone tra il governo riconosciuto internazionalmente e quello di Tripoli?

R. - Innanzitutto, se proprio si vuole cercare una responsabilità delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, è quella di aver cercato di investire su personalità che hanno un controllo limitato del territorio libico e che, soprattutto per esercitare la propria azione politica, devono appoggiarsi necessariamente alle milizie locali che le tengono sotto una sorta di ricatto politico. Dall’altra parte le difficoltà di comunicazione e di dialogo tra Tripoli e Tobruk affondano le loro radici nella competizione secolare che c’è tra la Tripolitania e la Cirenaica e la volontà di quest’ultima di veder garantiti i propri diritti di autonomia e soprattutto di controllo delle risorse petrolifere che sono nel proprio territorio. Quindi l’accordo non va avanti, perché sostanzialmente i rappresentati di Tobruk non si sentono abbastanza tutelati e temono di ritornare in una situazione simile a quella dell’epoca di Gheddafi, in cui il centro aveva il pieno controllo di tutte le periferie. Questo scenario è osteggiato nella maniera più totale.

D. - Un Paese instabile, come la Libia oggi, rischia ancora di finire nelle mani del fondamentalismo?

R. - Per quanto Sirte sia stata riconquistata e il grosso delle forze del cosiddetto Stato Islamico siano state cacciate, lo spettro di forme jihadiste di mobilitazione politica non è stato del tutto esorcizzato, anche perché quella libica è una società molto fluida in cui gli accordi si basano soprattutto sui compromessi tra le milizie e tra le mille anime politiche del Paese. Lo Stato Islamico in Libia era sorto grazie ad un’alleanza molto pragmatica tra una parte degli ex gheddafiani di Sirte e alcuni nuclei di combattenti stranieri, che erano arrivati prima a Derna e poi si erano installati nella città di origine di Gheddafi. Questo elemento ci deve far riflettere. Siccome persistono ancora gravi fratture sociali e politiche all’interno del Paese, esiste la possibilità che una forma di jihadismo, di organizzazione parastatale che si ispiri ai precetti del jihadismo, dell’interpretazione più oscurantista dell’Islam, possa riformarsi in altre parti del Paese. Non dobbiamo poi mai dimenticare che spesso, quando si parla della guerra libica, noi consideriamo dinamiche che avvengono sulla costa, ma il vero ventre molle del Paese, totalmente fuori controllo, invece è l’entroterra, il Sud, il Fezzan, dove le realtà jihadiste hanno piantato la propria bandiera da anni e in maniera ben più stabile e proficua che nei pochi mesi di Sirte. Quindi l’attenzione deve rimanere ancora molto alta.








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