2017-01-12 13:51:00

No di Israele ad una conferenza di pace con i palestinesi


Chiusura di Israele a qualsiasi ripresa del dialogo con i palestinesi. Dopo il recente attentato subito da militari dello Stato ebraico, il governo del premier Netanyahu ha espresso la sua categorica opposizione all’iniziativa francese di rilanciare i negoziati di pace attraverso una conferenza internazionale. Sulla presa di posizione israeliana, Giancarlo La Vella ha intervistato Lorenzo Cremonesi, esperto di Medio Oriente del 'Corriere della Sera':

R. – Israele non vede nella Francia, e nell’Europa in generale, un mediatore ideale nei negoziati di pace, un po’ perché l’Europa è profondamente divisa ed è percepita non come un alleato, ma anzi più filoaraba, più filopalestinese. In secondo luogo, direi che in Israele c’è una sorta di attendismo in questo momento: dopo gli anni difficili dei rapporti con l’amministrazione Obama, vedono in Trump un ritorno dello storico partner americano. In terzo luogo, in al momento c’è una grande diffidenza: Netanyahu è un premier che si basa fondamentalmente sul rapporto con le destre - lo abbiamo visto sulle ambiguità ad esempio della condanna del militare che ha ucciso a sangue freddo un palestinese, che aveva accoltellato degli israeliani, e la sua apertura nei riguardi delle colonie - e quindi direi che c’è tutta una serie di motivazioni, di pratiche storiche e politiche che giustificano, che ci fanno capire, questo atteggiamento da parte di Israele.

D. - Anche da parte palestinese non sembra ci sia tutta questa voglia di riprendere il dialogo…

R. - I palestinesi, nei confronti dell’Europa, della Francia in particolare, sono stati sempre estremamente aperti. Il problema è che hanno Abu Mazen, un presidente che ha difficoltà nella sua leadership, nel mantenerla, e poi naturalmente c’è lo scontro con Hamas che domina a Gaza, che è comunque un elemento che frena qualsiasi tipo di apertura ad Israele. Quindi per i palestinesi direi che più che altro è un problema di leadership.

D. - C’è comunque un terreno idoneo all’eventuale ripresa di un negoziato tra israeliani e palestinesi?

R. - Noi parliamo spesso di processo di pace, di un dialogo che si è interrotto, di speranze di una ripresa, ma in realtà questo dialogo è fermo da 15 anni: le ultime vere speranze concrete di un accordo ci sono state ancora ai tempi del governo Barak del 2000, ai tempi della mediazione di Clinton. Da allora un vero processo di pace non c’è più stato. Poi c’è un elemento nuovo e cioè in realtà sul campo le cose sono cambiate drasticamente con la crescita delle colonie, lo sviluppo dei quartieri ebraici a Gerusalemme Est, la crescita di infrastrutture da parte israeliana nei Territori occupati, strade, impianti per l’elettricità, per le acque. Tutto ciò ha praticamente reso impossibile la divisione in due Stati. È la realtà sul campo che parla, quindi Israele si trova di fronte altre alternative, come ad esempio una amministrazione in co-gestione dei Territori, ma, comunque, la divisione in due Stati è ormai praticamente impossibile, a meno che non si parli di smantellare migliaia di case, spostare 500 mila israeliani da una parte all’altra della vecchia “linea verde”, un confine che di fatto non c’è più. Quindi è sul campo che le cose sono drasticamente cambiate. Qui stiamo parlando di alternative diverse: uno Stato binazionale o una specie di encalve separata governata comunque territorialmente dagli israeliani… C’è una realtà diversa sul campo rispetto a una pace basata sul famoso discorso della terra in cambio della pace - cioè i due Stati - ancora ai tempi degli accordi di Oslo, all’inizio degli anni ’90.








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