2017-01-05 13:42:00

Myanmar: la foto di un bimbo simbolo del dramma dei Rohingya


Ha fatto il giro del mondo la terribile foto del piccolo Mohammed, il bimbo Rohingya di 16 mesi annegato mentre tentava con la sua famiglia di fuggire verso la salvezza in Bangladesh dal turbolento Stato del Rakhine, nel Myanmar occidentale. Così come nel 2015 l’immagine del piccolo siriano Aylan, morto sulle coste della Turchia, scosse molte coscienze in Europa sul dramma dell’immigrazione, potrebbe anche questa fotografia accendere i riflettori su uno dei gruppi più perseguitati al mondo? Roberta Barbi lo ha chiesto al prof. Stefano Caldirola, docente di Storia contemporanea dell’Asia all’Università di Bergamo:

R. – Si tratta chiaramente di una tragedia che senza dubbio non può far altro che colpire e commuovere. È possibile che questa storia in qualche modo scuota l’opinione pubblica internazionale sulla questione dei Rohingya, che ormai si è incancrenita da diversi anni e che è molto trascurata dall’opinione pubblica, in particolare in Europa e negli Stati Uniti.

D. – Secondo l’Oim, negli ultimi mesi, 34mila Rohingya sono fuggiti dallo Stato di Rakhine, dove la maggioranza dei birmani li considera immigrati illegali , verso il Bangladesh; anche l’Acnur ha denunciato un’operazione militare molto cruenta nei loro confronti, che si sarebbe intensificata negli ultimi mesi ...

R. – La situazione è estremamente difficile, ma lo è almeno dal 2012, da quando cioè si sono verificati scontri interetnici e una vera e propria pulizia etnica in alcune zone dello Stato di Rakhine. Dopodiché l’emergenza umanitaria è notevolmente cresciuta a partire dal 2015, quando abbiamo sentito le notizie sui "boat people” che partivano dal Myanmar verso la Malaysia e l’Indonesia, con un numero imprecisato di morti in mare. La situazione è peggiorata negli ultimi mesi, ma sono poche le notizie che arrivano e che sono fatte filtrare, in seguito a un attacco ad alcuni posti di polizia a ottobre. L’accusa è stata mossa da parte del governo birmano verso non ben precisati militanti musulmani e in seguito a questo episodio c’è stata una vera e propria caccia all’uomo, in una regione che negli ultimi anni era già stata devastata da violenze.

D. – Sulle accuse di violenze contro l’etnia Rohingya il governo ha creato una commissione d’inchiesta che, finora, ha affermato di non aver trovato prove di abusi, ma che renderà noti i risultati conclusivi solo a fine gennaio. Cosa è lecito aspettarsi?

R. – Poco, nel senso che questa commissione presieduta da un militare, peraltro molto discusso in passato, ha già fatto filtrare una parte molto parziale dei risultati delle indagini, da cui risulterebbe che non vi sono stati abusi quando invece, dalle fonti che provengono dalle testimonianze di diversi Rohingya fuggiti in Bangladesh, sappiamo che ci sono state uccisioni arbitrarie, torture, stupri.

D. – Questa situazione pesa sul primo esecutivo eletto in Myanmar, in particolare sul Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, leader del partito al governo…

R. – Indubbiamente pesa molto, anche perché Aung San Suu Kyi era già stata criticata prima di andare al governo per alcune sue affermazioni relative alla questione dei Rohingya e per il suo disinteresse per questa grave crisi umanitaria. Ora che Aung San Suu Kyi controlla il governo, di fatto la situazione non è migliorata. Questo nuoce indubbiamente alla sua immagine in quanto Premio Nobel per la Pace e a lungo considerata paladina dei diritti umani in Myanmar, ma getta ombre anche sul futuro, perché il processo di democratizzazione e di armonizzazione tra le diverse componenti etniche del Myanmar non comprende i Rohingya, che vengono ufficialmente considerati dal governo birmano come “immigrati illegali”, nonostante la loro presenza nella regione di Rakhine, un tempo chiamata “Arakan”, sia ormai molto datata. La negazione dei diritti di questa popolazione, che conta oltre un milione di persone attualmente residenti nello Stato di Rakhine, è sicuramente una delle ombre principali su un processo che non è solo di democratizzazione, ma anche di armonizzazione all’interno di una società, come quella birmana, molto composita dal punto di vista etnico.

D. – La Chiesa locale, attraverso l’arcivescovo di Yangon, il cardinale Bo, non più tardi di pochi giorni fa auspicava che il 2017 fosse per il Myanmar l’”anno della pace”. Quanta strada c’è ancora da fare?

R. – Il percorso è ancora lungo. Sicuramente molto è stato fatto per quanto riguarda alcuni gruppi etnici e alcune minoranze, ma il problema dei Rohingya dimostra chiaramente che ancora c’è molto da fare. Va considerato, inoltre, che la questione Rohingya è poco presa in considerazione in Occidente, ma compare spesso, invece, nelle cronache dei Paesi musulmani, in particolare in quelli del Sud-est asiatico e questo sta creando e potrà creare anche in futuro frizioni e problemi tra il Myanmar e alcuni Paesi vicini, come la Malaysia o l’Indonesia.








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