2017-01-03 14:57:00

Astalli: da Cona segnale preoccupante che chiede cambiamento


Sarà il risultato dell’autopsia a stabilire le cause della morte di Sandrin Bakayoko, la giovane donna ivoriana morta ieri nel Centro di prima accoglienza di Cona, nel veneziano. Tragedia che ha scatenato la protesta di una cinquantina di ospiti che per ore hanno trattenuto gli operatori della cooperativa che gestisce i servizi nel Centro. Francesca Sabatinelli:

La situazione è tornata calma a Conetta, il Centro di prima accoglienza di Cona . L’unità sanitaria locale ha smentito le voci di un grave ritardo nell’intervento in soccorso della ragazza e ora saranno gli esami autoptici a stabilire la morte, che si ritiene sia avvenuta per cause naturali. L’accaduto ha scatenato le proteste di decine di ospiti, in tensione per le terribili condizioni di vita alle quali sono sottoposti: in 1.400 in una struttura che potrebbe contenere al massimo 50-60 persone, ammassati sotto tendoni in situazioni di totale promiscuità. Sarà ora una commissione parlamentare ad indagare su quanto accaduto nel Cpa, gestito dalla cooperativa Edeco. Don Marino Callegari, direttore della Caritas di Chioggia e direttore delle Caritas del Nord-Est al Consiglio nazionale di Caritas italiana:

R. – Io non mi sono mai recato nel Centro di accoglienza di Conetta, anzitutto perché  non appartiene alla nostra diocesi, in secondo luogo per un motivo più semplice, perché ciò che conosciamo è grazie alla Prefettura di Venezia che,  in alcuni casi, ha trasferito ospiti da Conetta presso strutture in cui noi facciamo inclusione sociale. Sono state queste persone a raccontare e descrivere un po’ la situazione che c’era in questo grande centro di accoglienza. Com’è facile immaginare, quando si mettono insieme centinaia e centinaia di persone evidentemente qualche problema di convivenza nasce sempre, così come anche l’impossibilità della stessa struttura di essere accogliente nei confronti delle persone. Non dimentichiamo che in questi grossi centri si mettono insieme persone che normalmente insieme non sono, perché di nazionalità diverse, di etnie diverse, di linguaggi e religioni diversi , ecco quindi che sale in maniera esponenziale il pericolo di conflittualità.

D. – Nello specifico, per quanto riguarda Cona, che tipo di racconti le sono stati fatti da quelle persone che un tempo vi sono state ospitate?

R. – I racconti sono facilmente intuibili:  la promiscuità, intendo la gestione degli spazi non sufficientemente ampi per una normale convivenza; le camerate e i tendoni; il tipo di servizio che viene effettuato e che evidentemente non può essere un servizio di tipo alberghiero con tutti i crismi. Ripeto: la questione fondamentale è che mille persone insieme mettono in difficoltà tutta la struttura logistica e organizzativa. Ma qui dovremmo anche fare un discorso sul perché oggi, e in maniera particolare in questa parte del Veneto, abbiamo una struttura con un numero così spropositato di persone.

D. – E questo perché?

R. – Perché nel Veneto, i primi soggetti che dovevano essere in qualche modo protagonisti dell’accoglienza, attraverso il sistema Sprar o attraverso le accoglienze diffuse e cioè i Comuni, hanno sempre avuto nei confronti del soggetto proponente, ossia la Prefettura, un atteggiamento di tipo ostativo. La Prefettura di Venezia, più volte, ha chiesto incontri con le municipalità per poter dar vita a quello che sarebbe che è l’intento originario: lo Sprar, un servizio di accoglienza e di accompagnamento soprattutto. Molti Comuni, la maggior parte dei Comuni, si sono rifiutati. Non si sono neanche presentati ai tavoli di lavoro! Evidentemente, però, all’emergenza immigrazione una risposta bisogna darla e, non potendo dare una risposta diffusa, si è data una risposta accentrata, con i tutti i limiti drammatici che noi oggi vediamo. Al di là dell’episodio che è capitato a Conetta, è chiaro che una convivenza di questo tipo con il tempo non può reggere. Ma ripeto: il peccato originale sta nell’impossibilità che il soggetto Prefettura ha avuto di poter distribuire le persone in forma equilibrata, territorio per territorio.

D. – Chi sono i migranti che in questo momento sono in quella parte del Veneto?

R. – Fondamentalmente sub-sahariani, di immigrazione sub-sahariana, diversa dalla provenienza di tipo siriana, irachena o afghana che ha caratterizzato gli ultimi anni. Il fatto di avere qui una grande maggioranza di persone sub-sahariane provoca una grande difficoltà nella gestione, un esempio, linguistica. C’è poi anche il fatto che relativamente pochi potranno essere quelli che un domani riceveranno il permesso di soggiorno, perché magari provenienti da zone di guerre dichiarate e dimostrate. Questa è un’altra bomba ad orologeria sulla quale dovremmo evidentemente fare delle riflessioni, e cioè sul fatto che queste persone sono nella stragrande maggioranza migranti economici, a cui non viene riconosciuto lo status di profugo o di rifugiato. Ma noi sappiamo che la peggiore di tutte le guerre è la povertà e la miseria. Dire che il migrante economico non ha possibilità di accesso è, in fondo, per il momento, raccontarci una cosa non vera, perché la peggiore delle guerre è la povertà!

Si torna, quindi, fortemente a chiedere un cambiamento radicale nelle politiche migratorie in Italia. Cona e Cie sono “segnali preoccupanti”, scrive in una nota il Centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati. In un momento in cui si riprende a “parlare di Cie e di rimpatri come se una risposta securitaria fosse in grado da sola di affrontare” il fenomeno delle migrazioni, il presidente padre Camillo Ripamonti indica come “pericoloso e fuorviante” associare “immigrazione a criminalità in un clima esacerbato dalla minaccia terroristica”:

R. – Il grosso problema è legato al fatto che si concentrano in piccoli spazi molte persone, in questo caso erano oltre un migliaio, e concentrare in spazi piccoli così tante persone, con tante problematiche, che arrivano da territori molto diversi, è sempre molto complesso da gestire. Quindi, sarebbe importante, nell’organizzazione di questa catena di accoglienza, lasciare le persone il minimo del tempo indispensabile per poi ridistribuirle sui territori. Questo credo sia uno passaggio importante e fondamentale. Ed è anche importante che tutti collaborino nell’accoglienza, una accoglienza diffusa, che va fatta su tutto il territorio.

D. – Intende ovviamente anche le municipalità?

R. – Sì, questo è molto importante. Ce lo ricordava anche il Presidente della Repubblica nel suo messaggio: l’importanza di una comunità di vita è quella di creare coesione sociale e la coesione sociale si crea assumendosi tutti la propria responsabilità. Nel caso dell’accoglienza, ogni piccola municipalità, ogni piccolo comune, deve prendersi la sua responsabilità ed accogliere anche un numero ridotto di persone. Questo alleggerisce la collettività dalla concentrazione di numeri grandi. E nella lunga distanza aiuta anche all’integrazione di queste persone: se piccoli numeri si inseriscono in un tessuto sociale di piccola entità, alla lunga questo aiuta l’integrazione di queste persone. 

D. – Da questo drammatico avvenimento, che ha riguardato Conetta, il Centro Astalli prende spunto anche per ricordare un aspetto molto importante: la necessità di restituire, di dare, di garantire dignità ai migranti, ma anche agli operatori che sono all’interno delle strutture…

R. – Sì, perché non dimentichiamo che gli operatori sono a contatto con persone che hanno, molto spesso, subito violenze, persecuzioni; che hanno fatto viaggi molto lunghi e difficili e quindi sono in situazioni – anche gli operatori – di grande stress e di grande difficoltà. Molto spesso ci troviamo di fronte a persone con grande professionalità, che però vanno supportate, vanno aiutate nella gestione di un fenomeno che è complesso nella sua articolazione. E quindi deve esserci una attenzione anche agli operatori, che lavorano in questi Centri e che prendono il carico di queste persone che hanno perso la loro dignità nei Paesi da cui provengono, dunque questa dignità che gli operatori cercano di restituire a questa persona, devono prima sentirla anche su di loro, come lavoratori che devono operare in condizioni degne. 








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