2016-12-28 11:33:00

Kenya. Campo Dadaab non può chiudere: a rischio 276mila rifugiati


Chiudere il Campo rifugiati di Dadaab significa mettere in pericolo la vita di più di 270mila persone, consegnandoli nelle mani dei trafficanti di uomini, o peggio, della jihad. Questo il rischio in cui Nairobi farebbe incorrere migliaia di migranti fuggiti dalla guerra civile in Somalia. Per questo motivo sono già in 35mila ad aver abbandonato il Campo per timore della deportazione o dell’espulsione. Un inganno, secondo molte ong, per spingere quante più persone fuori dal Paese. Non è infatti la prima volta che Uhuru Kenyatta, Presidente del Kenya, minaccia di abbattere il Campo, ma il 2017 sembra essere l’anno decisivo in quanto tempo di elezioni presidenziali in cui temi come sicurezza e rifugiati fanno leva sul sentimento elettorale. Sabrina Spagnoli ha chiesto a Federica Nogarotto, direttore supporto alle operazioni di Medici Senza Frontiere, quali sarebbero le ripercussioni dovute allo smantellamento di Dadaab:

R. – Chiudere il Campo in questo momento senza offrire altre soluzioni durevoli, e che abbiano una sostenibilità, spinge i rifugiati in una zona che è tuttora in pieno conflitto, ma che lo è dagli ultimi 25 anni. Per cui è chiaro che non è una soluzione o un’opzione da prendere in considerazione. Il sistema sanitario, per esempio, che è in Somalia da più di 20 anni, è completamente piegato, e non può garantire le cure di base alle persone. Oltre a questo, da  una intervista che abbiamo fatto con 5.500 persone più o meno, abbiamo riscontrato che il 97% degli intervistati considera che ci sia un alto rischio di essere reclutati da gruppi armati in Somalia, come al-Shabaab per esempio.

D. – Si parla di rimpatri volontari in Somalia per i rifugiati, però non si direbbe che siano poi tanto volontari…

R. – Dai contatti che abbiamo con la popolazione che abita in questo momento a Dadaab e nei Campi vicini, tutti ci stanno dicendo che sono molto spaventati dalla mancanza di sicurezza che c’è in Somalia in questo momento, e dall’elevato rischio di violenze sessuali. Medici Senza Frontiere (Msf) mette in discussione la natura volontaria di questi rimpatri: il fatto che l’Alto Commissariato per i rifugiati stia cercando di facilitare tutto questo ci fa dubitare molto. La condizione cruciale è che i rimpatri debbano essere volontari, ma non vediamo la volontarietà dello spostamento di queste persone.

D. – Il Presidente Kenyatta sarebbe convinto che la chiusura del Campo preservi il territorio dagli al-Shabaab; però molti vedono in questo suo procrastinare la chiusura (che era fissata al 30 novembre, ndr) solamente un modo per guadagnare tempo anche in vista delle prossime elezioni, e per ricevere nuovi fondi dalla comunità internazionale…

R. – Potrebbe anche essere una cosa di questo tipo. È vero che i finanziamenti da parte dei Paesi donatori devono essere indirizzati nella direzione corretta per poter garantire un’assistenza duratura nel Paese di accoglienza dei rifugiati; quindi vuol dire anche in Kenya. E non devono essere indirizzati invece per supportare ciò che essenzialmente è un rimpatrio forzato in una zona di guerra come la Somalia.

D. – Quali sarebbero altre soluzioni praticabili qualora la chiusura diventi inevitabile?

R. – È molto complicato dare una risposta a questa domanda; certo è che non è il trasferimento una soluzione. Il reinsediamento in Paesi terzi o l’integrazione dei rifugiati con la comunità keniota potrebbero essere altre valide alternative ai rimpatri. Certo è che noi non siamo assolutamente convinti, e non crediamo in questo spostamento forzato e nel rimpatrio della popolazione del campo di rifugiati più vecchio del mondo.








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