2016-11-13 11:57:00

Ancora proteste contro Trump. Nato: Usa hanno bisogno di noi


Proseguono, negli Stati Uniti, le proteste contro il neoeletto presidente Trump. Ancora decine di migliaia di manifestanti in diverse città sono scesi in piazza e sono stati effettuati arresti per scontri con la polizia. E mentre Hillary Clinton attribuisce la propria sconfitta alla lettera inviata dal direttore dell’Fbi al Congresso pochi giorni prima del voto, Trump esprime in 18 punti le priorità del suo programma. Intanto il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, in una lettera all’Observer ricorda al prossimo inquilino della Casa Bianca come gli Usa abbiano bisogno dell'organizzazione. E proprio sul significato delle prime dichiarazioni del nuovo presidente in politica estera e sul rapporto con l’Alleanza Atlantica, Roberta Barbi ha intervistato Germano Dottori, docente di Studi strategici all’Università Luiss di Roma:

R. – Significano fondamentalmente una cosa: l’America intende concentrarsi su stessa, senza lasciare il caos in giro per il mondo, e chiede ai suoi alleati di contribuire maggiormente alla sicurezza comune – come del resto hanno fatto tanti predecessori – e in più aggiunge a tutto questo la voglia di stabilire rapporti di collaborazione con Paesi che in questo momento sono considerati rivali degli Stati Uniti.

D. – Il segretario generale Ban-ki-moon si è detto fiducioso che i rapporti tra Nazioni Unite e Usa non cambino…

R. – Questo ovviamente è tutto da verificare alla prima crisi internazionale importante che dovesse insorgere. Le Nazioni Unite sono sorte alla fine della Seconda Guerra Mondiale anche sulla base di un disegno del presidente Roosevelt, che immaginava all’epoca una specie di “condominio americano-sovietico” per stabilizzare il mondo e garantire la sopravvivenza della pace dopo la fine delle ostilità. Nel momento in cui Trump dovesse realizzare un accordo di vasta portata con la Federazione Russa diventerebbe, forse, più facile.

D. – Il presidente della Commissione Ue Juncker ha detto che Trump non conosce il mondo e che bisognerà spiegargli cos’è l’Europa…

R. – Io credo che Juncker esprima il punto di vista dell’establishment comunitario che, in qualche modo, è strettamente imparentato con quello che è stato sconfitto in queste elezioni americane. Non credo che ci sia da preoccuparsi… In realtà, Trump ha investimenti in tutto il mondo e - come tutti gli investitori che operano all’estero - del mondo sa probabilmente molto di più di quanto comunemente si creda. Certo cambia la prospettiva, perché invece della prospettiva del business, adesso deve prevalere una prospettiva politica. Ma una cosa è certa: come imprenditore preferisce sicuramente la stabilità al rischio dell’aumento del caos. E questo credo che sia molto promettente per noi.

D. – Trump ha detto che la priorità è combattere lo Stato Islamico. Come si comporterà riguardo all’intervento in Iraq e la guerra in Siria?

R. – Questo ovviamente è da vedere, ma io immagino che la futura politica mediorientale dell’amministrazione Trump ruoterà essenzialmente intorno ai rapporti stabiliti con Israele e con gli stessi russi. Tutte le altre variabili dipenderanno da come si inquadrano questi due rapporti. Anche l’atteggiamento nei confronti della Turchia o nei confronti dell’Iran, secondo me risentirà molto del tipo di impostazione che avranno le relazioni con Tel Aviv e con Mosca. Dire che gli Stati Uniti debbano concentrarsi nella lotta allo Stato Islamico è anche un modo per trovare un terreno d’intesa proprio con i russi.

D. – Cosa dire sulle relazioni con la Russia: cambieranno e in che modo?

R. – Se le cose rimangono come nelle aspettative del presidente, avremo sicuramente un grande miglioramento. La stessa idea di Trump di alleggerire la pressione della Nato alle frontiere della Federazione Russa è qualcosa che è sicuramente gradito alla controparte. Se noi vogliamo immaginare un mondo in cui gli Stati Uniti e la Russia cooperano per mantenere la stabilità, è chiaro che Trump qualche cosa ai russi deve offrire, affinché trovino conveniente partecipare a questo tipo di operazione. Fermo restando che in un’eventuale trattativa Trump, comunque, non farà sconti, perché è il presidente degli Stati Uniti e non certamente il presidente della Federazione Russa.

D. – Per quanto riguarda i rapporti con la Cina, il neopresidente minaccia una guerra di valute e soprattutto sta vagliando l’ipotesi di porre dazi al 45 per cento sulle importazioni. Questo cosa significherebbe per l’economia statunitense e per quella mondiale?

R. – Sicuramente ci saranno settori della comunità americana degli affari che resisteranno a questa idea. Ma Trump si è presentato sulla scena politica americana promettendo iniziative energiche per restituire competitività alle manifatture statunitensi e quindi creare nuovi posti di lavoro ad alto valore aggiunto in quel settore. Io cercherei di vedere un aspetto positivo di questa posizione: una guerra commerciale è sempre meglio di una guerra militare. Il fatto stesso che si parli in questi termini, esclude di utilizzare nei confronti della Cina strumenti di coercizione militare. Quindi io credo che sia una cosa molto positiva: tra americani e cinesi si discuterà, ma si discuterà con strumenti – se vogliamo – “soft” della potenza politica e non con gli strumenti duri, gli strumenti “hard”, che sono le armi.








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