2016-09-14 11:33:00

Nasce Esodi, mappa interattiva con le rotte migratorie


Una mappa interattiva, in italiano e inglese, basata sulle testimonianze dei migranti dai paesi sub-sahariani e che disegna le rotte terresti principali dall’Africa occidentale e dal Corno d’Africa. Si chiama Esodi, ed è stata preparata dall’organizzazione Medici per i Diritti Umani che l’ha presentata ieri a Roma. Francesca Sabatinelli:

Sono centinaia le voci di migranti che negli ultimi tre anni Medu ha raccolto grazie ai suoi operatori e volontari, in particolare in Sicilia, nei Centri accoglienza straordinaria di Ragusa e nel Cara di Mineo, oltre che a Roma, anche presso il Centro per la riabilitazione delle vittime di tortura. I loro racconti, le loro storie, sono divenuti una mappa interattiva, che prende in esame il contesto dei Paesi di partenza, di quelli di transito e anche dei luoghi di arrivo, come gli hotspot italiani. Attraverso poi le testimonianze, la mappa narra l’orrore, le violenze subite, i ricatti, ma anche la speranza che spinge le persone a partire. Di ogni luogo toccato dai migranti si dà ampia descrizione, come della città libica di Sabha, punto di arrivo della cosiddetta “via dell’inferno”, senza dimenticare di aggiornare il drammatico numero degli sbarchi e delle vittime nel Canale di Sicilia. Ibrahim è arrivato in Italia dal Niger sette anni fa, lavora come mediatore per Medu, ha ottenuto il permesso umanitario, ma non senza fatica:

R. - Nella prima audizione davanti alla commissione, a Crotone, mi sono trovato di fronte a un diniego, e questo perché loro la tua storia non la ascoltano, non la capiscono, perché noi siamo africani, e l’80% di noi è riservato sui problemi che ha vissuto: la vergogna, la cultura, non ti fanno parlare, dire ciò che uno vive dentro di sé. Ma grazie ai mediatori, piano piano, si fa amicizia e poi le persone riescono a raccontare ciò che hanno vissuto, e ti dicono se sono stati violentate, se sono state carcerate o vittime di ricatti.

D. - Queste persone oggi ti raccontano questo? Le loro storie sono queste?

R. - Sì, la maggior parte delle persone che intervistiamo, con le quali parliamo, raccontano le torture che hanno vissuto. Io ho visto con i miei propri occhi le cicatrici delle torture sui corpi delle persone, e pure io ho sulla mia testa sei centimetri della tortura che ho vissuto, adesso ho lasciato che i miei capelli lo nascondessero. Mi ricordo quando ero a Pozzallo, durante uno sbarco, una donna arrivata col gruppo mi ha chiesto di dove fossi, le ho risposto che non potevo dirglielo, lei ha insistito, alla fine le ho detto di arrivare dal Niger, a quel punto lei mi ha risposto: “Lì siete cattivi”. E lei aveva ragione, veniva dal Gambia, e ricordava quello che aveva vissuto in Niger, ecco perché pensava fossimo tutti cattivi. E a quel punto le ho detto: “E’ vero, so che siamo cattivi, perché per quello ho lasciato il mio Paese”. E poi lei, alla fine, su di me ha cambiato idea, e io l’ho ringraziata. La realtà è che abbiamo bisogno di un cambiamento, lì noi rischiamo la vita: il deserto, il mare, affrontiamo la morte, perché? Per il cambiamento, se noi fossimo stati bene saremmo rimasti nella nostra terra. Ma la maggior parte dei migranti arriva qua senza dire le tragedie che ha vissuto.

D. - Che succede alle donne?

R. - La maggior parte delle donne che ho incontrato sono state violentate, la maggior parte. Ma prima che una donna africana ti spieghi ciò che ha vissuto ci vuole molto tempo, se lei ha fiducia allora racconta tutto ciò che ha vissuto, ma ci vuole tempo o amicizia o fratellanza.

D. - Dopo tutto questo non si ha paura di affrontare il mare…

R. - No, io ho affrontato due volte la morte, ho attraversato il deserto e ho attraversato  il mare ma, seguendo la nostra ‘stupidaggine ‘ africana, noi diciamo che la morte in mare è più facile che nel deserto, dove uno soffre la sete, dove l’agonia dura, invece il mare è più rapido, cinque minuti e uno è andato via. Ma io sono vivo, e sono contento di essere vivo. Io non ho nemici, ma se li avessi non gli augurerei  l’esperienza che ho vissuto, davvero il mio passato non lo augurerei neanche al mio nemico.

Nove testimoni su dieci – raccontano gli operatori di Medu – hanno subito violenza intenzionale, tortura, trattamenti inumani e degradanti, nel Paese di origine così come nei Paesi di transito della rotta migratoria. Peppe Cannella è psichiatra e psicoterapeuta del team Medu in Sicilia:

R. - “Di solito chi è vittima di trauma ha attraversato l’inferno della partenza da un Paese ingiusto – Sub-Sahara, Corno d’Africa – ha attraversato l’inferno delle rotte del deserto, l’inferno libico dei maltrattamenti, delle crudeltà, della tortura; l’inferno del mare, nero, del Canale di Sicilia, in cui in tanti ancora perdono la vita, chi arriva vivo e sopravvive non è più lui! Ha perso il dono della speranza per il dopo. E’ una esistenza che è bloccata, mancata. Ciò che vedi, nella relazione terapeutica, è questa vita spenta, questa energia che non c’è più. E quindi inneschi un ripartire. Le ferite invisibili della mente non si toccano, non si vedono, ma si sentono. C’è la grande omissione. Una nuova generazione di migranti africani, che sopravvive e arriva viva, ha bisogno di cure, pratiche, materiali, ma molto anche immateriali: il prendersi cura, lo stare con l’altro. C’è bisogno di interventi dal basso, ma anche di interventi sanitari e piscologici. Chi è vittima di trauma ha disturbi psicologici importanti e tantissime persone in Italia sono bisognose di queste cure psicologiche e mediche per il trauma subito. Stiamo scoprendo che c’è tanto da fare! Tra il dire e il fare non c’è di mezzo il mare, ma l’iniziare, e vorrei che domani si iniziasse ad intervenire”.

“Quando Shiva disegna il mare lo colora sempre nero”: Shiva è una ragazzina di 10 anni che viene dalla Liberia, sopravvissuta ad un naufragio, e per la quale il Mediterraneo “rappresenta solo morte e dolore”. E’ una delle tante storie di cui è testimone Medu che indirizza “Esodi” a chiunque voglia “comprendere e approfondire la vicenda umana che più sta segnando il nostro tempo”. Alberto Barbieri è il coordinatore di Medici per i Diritti Umani:

R. – Vogliamo che la mappa sia una mappa viva, dinamica, che nel tempo si arricchisca delle testimonianze che noi acquisiamo. L’idea è di aggiornarla continuamente, perché alcune cose rimangono uguali, ma altre cose cambiano, anche drammaticamente e anche molto rapidamente. Il nostro obiettivo, la nostra ambizione, è di riuscire a raccontare come cambiano le rotte, come cambiano questi esodi in tempo reale. L’altra grande sfida è quella di raggiungere un pubblico ampio, poter cioè presentare una mappa che sia compresa – per esempio – nelle scuole, che sia compresa da un pubblico che non si occupa specificatamente di questo e che visivamente si renda conto di quello che succede. Molti dati sono nostri, ovviamente, sono dati acquisiti da noi. Poi, però, abbiamo cercato di dare un contesto anche più globale, per esempio abbiamo cercato di descrivere che cosa succede in ognuno dei Paesi da cui queste persone vengono e abbiamo utilizzato i rapporti di Amnesty per descriverne il contesto, che è una fonte molto autorevole. Abbiamo voluto pubblicare anche dei dati del Ministero dell’Interno o di altri ricercatori - come quelli di “Fortress Europe” - per dare l’idea del fenomeno nel tempo a livello più globale, e quindi che cosa è successo con gli sbarchi negli ultimi 15 anni; che cosa è successo con le persone che sono morte in mare negli ultimi 15 anni. Si comprende che in 15 anni, in Italia, sono sbarcate 720 mila persone.

D. – Si parla delle ricadute fisiche, delle ricadute psicologiche e delle patologie che queste persone sviluppano. Però fate anche un’ analisi politica, come quella sui dinieghi ad esempio?

R. – Sì. La mappa cerca di descrivere i dati con la massima obiettività. Ovviamente abbiamo fatto anche delle considerazioni, come – appunto – il problema dei dinieghi: qual è lo stato di salute del diritto di asilo in Europa? E’ vigente, come era stato concepito, oppure implicitamente lo si sta, in qualche modo accantonando, perché si ritiene di non essere più in grado di gestire questo fenomeno? L’altra questione su cui noi vogliamo sollevare l’attenzione è la questione delle vittime della violenza. Queste sono persone, migranti, che hanno subito molteplici traumi, non solo un trauma, ma molteplici: le violenze, l’attraversamento del deserto, l’attraversamento del mare… Arrivano qui profondamente segnati. Tantissimi hanno una capacità di resistenza e di risposta importante, ma tanti accusano questa sofferenza, sia nel fisico, sia nel disagio psichico, sia nei disturbi mentali, che possono essere – per esempio – il disturbo da stress post-traumatico. Vogliamo sollevare l’attenzione su questo non per dire “Ah, questi sono tutti matti!”: non sono matti! Sono persone che hanno sofferto delle esperienze limite, che noi non riusciamo neanche a comprendere, né emotivamente, né cognitivamente, perché per noi sono cose impensabili, e a cui bisogna dare delle risposte adeguate a livello di medici, a livello di psicologi, ma anche a livello sociale e culturale. Questo è un tema che, secondo noi, va affrontato.








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