2016-09-10 12:00:00

Usa: quindici anni fa gli attentati dell'11 settembre


8:46 del mattino. Quindici anni fa, a quell’ora, cambiò la storia degli Stati Uniti: era l’11 settembre del 2001 e un volo American Airlines dirottato da un gruppo di terroristi colpì la torre nord del World Trade Center di New York. Alle 9:03, l’impatto di un altro aereo sulla seconda torre. Un terzo velivolo si schiantò sul Pentagono a Washington e un quarto in un campo della Pennsylvania. In tutto ci furono 2.974 vittime. Diciannove gli attentatori suicidi morti, a bordo dei quattro aerei. L'11 settembre è ormai diventato il “Patriot day and National day of service and remembrance”, con celebrazioni ed eventi dedicati al volontariato in ricordo delle vittime, dei sopravvissuti e delle persone che si occuparono dei primi soccorsi. Anche quest’anno gli appuntamenti coinvolgono tutto il Paese, in un momento in cui gli Usa si preparano alle presidenziali di novembre. Ce ne parla Ferdinando Fasce, già docente all'Università di Genova e profondo conoscitore della Storia americana. L'intervista è di Giada Aquilino:

R. – L’anniversario cade in un momento di forte tensione sia sul piano interno sia sul piano del quadro internazionale. Ma soprattutto di tensione sul piano interno perché in questi anni c’è stata una forte recrudescenza della questione razziale e si è ritornati a parlare di pesanti forme di discriminazione. Ci sono state rivolte nel passato: l’ultima significativa in fondo risaliva al 1992 a Los Angeles. Invece ce ne sono state diverse soltanto nell’ultimo anno. Quindi si è riproposto con grande forza questo problema atavico della società statunitense.

D. – L’11 settembre continua a riecheggiare nei toni e nei programmi dei due candidati presidenziali, specialmente in quelli di Trump, con una idea di America improntata in un certo senso alla chiusura?

R. – Sì ed era inevitabile. L’11 settembre ha lasciato e diffuso, con la sua tragicità, un’ombra che non si sarebbe potuta cancellare nel tempo, nonostante ci siano stati tentativi di elaborazione, di comprensione e di cercare di andare oltre. E’ indubbio che Trump, che fa una politica fortemente emotiva, una politica che cerca di toccare le corde – mi spiace dirlo – peggiori dell’elettorato, faccia poi riferimento nella sua visione del rilancio dell’America a debolezze da parte del fronte avversario, da parte dei democratici e in particolare di Hillary Clinton, come possibili gestori della politica estera rispetto alla forza che, invece, mostrerebbe o sarebbe in grado di dimostrare Trump stesso.

D. – La sicurezza nazionale, la questione razziale che lei ha citato, la circolazione delle armi: come ritorneranno tali temi nei prossimi mesi?

R. – Ritorneranno sicuramente, perché è indubbio che Trump li riproporrà in maniera esagerata dal punto di vista emotivo appunto. C’è da sperare che, a tutto questo, Hillary Clinton sia capace di rispondere con argomentazioni adeguate, così come ha provato a fare – in vario modo – il suo predecessore e attuale presidente Barack Obama: quindi richiamando, ad esempio, la necessità di una legge sulle armi; sottolineando l’imprescindibilità di una logica di interdipendenza e di apertura internazionale degli Stati Uniti e non di atteggiamento di chiusura protezionistico o di rottura di relazioni come quello suggerito da Trump; e poi immaginando politiche interne che possano aiutare ad affrontare la questione razziale.

D. - Obama, però, non è riuscito a chiudere, entro la fine del suo mandato, la base-prigione di Guantanamo. Lì, tra gli altri, è incarcerato anche il presunto “cervello” delle stragi dell’11 settembre, Khalid Shaykh Muhammad. Cosa c’è da attendersi?

R. – Questo potrebbe essere definito il più significativo fallimento da parte di Obama rispetto alle promesse che aveva fatto. Nell’immediato, c’è da sperare che ciò non venga usato in maniera incontrollata ed emotiva nella campagna elettorale. E poi c’è da sperare che Obama stesso crei le premesse e che il vincitore o la vincitrice delle elezioni possa aprire la strada e sviluppare una politica che porti alla chiusura di Guantanámo.








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