“Basta indignarsi per foto shock, occorre chiedere con forza ai governi la pace”. E’ il commento dell’Unicef di fronte all’immagine che sta facendo il giro del mondo a simboleggiare il dramma della Siria in guerra: è il volto insanguinato del piccolo Omran, estratto vivo dalle macerie di Aleppo, dove si attende ancora l’entrata in vigore della tregua di 48 ore stabilita ieri. Il servizio di Gabriella Ceraso:
Ci saranno 48 ore alla settimana di tregua in Siria e due direttrici di ingresso degli aiuti umanitari ad Aleppo, ma non si sa ancora da quando. Questa è la realtà nonostante il "sì" di Mosca allo stop ai bombardamenti e la pressione dell’Onu che da ieri ha interrotto l’azione umanitaria della propria task force per scuotere l'azione politica. Sono in corso contatti tra Turchia e Stati Uniti sul conflitto e sul futuro di Assad, mentre dipenderebbe dal ritrovato asse Ankara- Mosca il bombardamento da parte di Damasco contro i curdi, nel nord della Siria, soldati alleati di Assad contro l’Is ad Aleppo. Dunque, a nulla per ora sono valse le ultime drammatiche immagini: il volto insanguinato del piccolo Omran, emerso dalle macerie e seduto nell'ambulanza, simbolo di un conflitto ignorato da più di cinque anni. Scalpore o ipocrisia? E poi quanto durerà l’ondata emotiva? Ne abbiamo parlato con Domenico Quirico, inviato de La Stampa e conoscitore della realtà siriana:
R. – I cinque anni della guerra siriana formano una galleria di immagini tremende e spesso anche più terribili del bambino, che per fortuna è ancora vivo. Mi chiedo perché non siamo riusciti raccontando, fotografando e filmando, a trasformare questa tragedia così immensa e così profonda in coscienza collettiva? Penso ad altre guerre, per esempio al Vietnam… Probabilmente, perché la qualità del nostro racconto è minore e poi perché l’impatto sulla coscienza collettiva degli strumenti che noi utilizziamo si è rarefatto.
D. – C’è anche un po’ l’elemento di atrocità, talmente frequente, al quale praticamente siamo quasi assuefatti?
R. – Il limite dell’orrore è stato superato mille volte. La convivenza quotidiana con il dolore, questo è il nocciolo della tragedia siriana: la durata nel tempo e la profondità della sofferenza.
D. – Quindi,, la durata di una guerra che ci ha sfinito, che ha sfinito il popolo, ha sfinito l’opinione pubblica nel senso che ha consumato qualsiasi forma di sensibilità e che non riesce a sfondare i canali della politica, della diplomazia?
R. – Non è che ha sfinito l’opinione pubblica, non ha mai acceso la scintilla dell'opinione pubblica, che è una cosa diversa. Mi domando cosa siamo diventati, se una tragedia come quella siriana ci lascia indifferenti – parlo dell’Occidente... Una volta eravamo in grado di mobilitarici per vicende come quella siriana o addirittura meno tragiche. Quali sono i nostri punti di riferimento? Perché non abbiamo più la voglia di indignarci?
D. – A questo punto verrebbe da pensare che c’è un fronte di resistenza e di mancato coinvolgimento anche nel volere una tregua...
R. – In Siria, c’è una serie di guerre una infilata nell’altra e ci sono attori che perseguono finalità diverse. Molti o forse tutti hanno interesse che questo non si fermi, non soltanto la Russia… E poi c’è un altro elemento, secondo me ancora più importante: in Siria nessuno ormai controlla più niente. C’è una sorta di meccanismo automatico della guerra. Come ipotesi o possibilità di intervento non c’è più diplomazia. Chi fa diplomazia? E su che cosa?
D. – E proprio sulla questione degli interessi che si intrecciano, c’è un elemento abbastanza inquietante che forse scaturisce da questo accordo-riavvicinamento Erdogan-Putin-Assad degli ultimi giorni. Sarebbero partiti dei raid proprio da parte del regime di Assad sui curdi nel nord, quegli stessi curdi che combattono con Assad ad Aleppo…
R. – I turchi sono ossessionati dai curdi, cioè dall’impedire che questi costituiscano uno Stato che faccia da richiamo per tutti i curdi, compresi quelli che arrivano in Turchia, e poi i curdi hanno anche un'ambizione, neanche tanto segreta, di riprendersi Aleppo, una città che fa parte delle loro ambizioni ottomane, mettiamola così. E comunque in Siria tutto è molto mobile: quello che c’è oggi, domani mattina potrebbe essere diverso. Nessuno controlla più niente.
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