2016-07-21 14:47:00

Turchia: la testimonianza del padre domenicano Claudio Monge


Padre Claudio Monge, piemontese, domenicano e teologo delle religioni, vive da 14 anni in Turchia. A Istanbul è parroco nella Chiesa dei Santi Pietro e Paolo. A suo avviso, quanto sta accadendo nel Paese è una evoluzione di ciò che si era visto negli ultimi tempi. Ascoltiamolo al microfono di Fabio Colagrande:

R. – A me sembra una semplice impennata, in termini di proporzioni, rispetto ad una politica che il potere turco sta applicando sistematicamente da oltre due anni. Basta avere un minimo di memoria storica. La svolta è stata il famoso scandalo per corruzione che falciò uno degli esecutivi del governo, nel dicembre del 2013, e che interessò palesemente i membri della famiglia del presidente stesso e di molti ministri. All’epoca - qualcuno deve averlo dimenticato – furono rimossi più di 500 funzionari di polizia - tra cui il capo delle forze dell’ordine di Istanbul - accusati di aver partecipato ad un’inchiesta della magistratura su presunte corruzioni e concessioni di permessi, anche per costruzioni su aree tutelate, che riguardava fra l’altro l’operato dello stesso ministro di allora. E’ iniziato allora un processo di distruzione sistematica dello stato di diritto in Turchia, quindi la fine dell’indipendenza della magistratura e poi anche dell’informazione e della stampa che sono due pilastri della democrazia. Chi si dice particolarmente preoccupato oggi è perché o ha dormito finora o ha fatto finta di non vedere.

D. – Come considera le reazioni che si sono avute dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti a questa nuova svolta autoritaria di Erdogan?

R. – Mi paiono ancora una volta l’esempio plastico della drammatica crisi di una politica internazionale che ha perso non solo credibilità, ma anche qualsiasi fondamento etico oltre che visione di futuro. Quello che, a mio modo di vedere, erroneamente si definisce ancora Unione Europea, ma che è un’accozzaglia di Stati imprigionati nei loro egoismi nazionali, ha – penso – da tempo perso la bussola dell’ideale di un’Europa delle nazioni dalle politiche inclusive, che quindi aveva lo spessore morale per fare un discorso credibile rispetto anche a certe derive che - ripeto - non ci sono da oggi in Paesi come la Turchia. Quando sento dire in questi giorni “se la Turchia dovesse votare la reintroduzione della pena di morte, saremmo costretti a riconsiderare la sua candidatura all’Unione Europea”, mi viene quasi da ridere. Bisogna considerare un lungo processo - gli ultimi due decenni, soprattutto gli ultimi 15 anni del potere dell’Akp e del governo dell’attuale presidente Erdogan - e tenere presente una parabola molto complessa, che nei primi anni è stata caratterizzata, a mio modo di vedere, da un processo sincero di avvicinamento all’Unione Europea. La Turchia ha fatto di tutto per rientrare in quelle condizioni che sono diventate sempre più incomprensibili e impalpabili anche per certi versi, con un rincarare la dose anche di richieste in nome dei diritti umani, della libertà e così via. Questa Unione Europea, dopo che per 15 anni ha tenuto in scacco la Turchia, se si vanno a vedere le risposte, e di fatto implicitamente ha orientato questa progressiva deriva del potere, qualche mese fa cosa fa? In nome della tutela dei diritti umani, letteralmente appalta la gestione del dramma dell’immigrazione alla Turchia stessa, con questa enorme promessa in termini finanziari, in un accordo che, a mio modo di vedere, non solo è contraddittorio rispetto a quello che si è detto per anni, ma è semplicemente “sconcio” e che, tra l’altro, per me avrà un effetto boomerang anche nei prossimi mesi e nei prossimi anni per la stessa Unione Europea. Io direi che in Turchia anche i moderati – chiamiamoli ancora europeisti - sempre meno numerosi, da tempo credo abbiano smesso di guardare al Nord del Mediterraneo con una qualche speranza. Oggi direi che la frustrazione e la delusione sono cresciute a dismisura, pronte purtroppo anche eventualmente ad essere trasformate in rancore esplosivo dall’attuale leadership populista del Paese.

D. - E’ uno scenario, quello turco, secondo lei, che potrebbe peggiorare la situazione delle minoranze nel Paese, come quella cristiana?

R. – Io non credo che questa sia una chiave di lettura pertinente in questo momento. Cosa voglio dire? Il problema non è tanto la posizione delle minoranze religiose in questo momento in Turchia, ma la possibilità di esprimere un’opinione che sia anche eventualmente dissenziente rispetto al potere forte. In altre parole, io credo che il problema maggiore della Turchia attuale non sia tanto l’appartenere eventualmente, ad esempio, ad una minoranza cristiana, in un Paese dove effettivamente attualmente si gioca in modo anche pericoloso con la manipolazione religiosa del politico, in senso islamico, ma credo che il problema più grosso sia quello di essere genericamente associati a quel mondo “straniero” fatto in questo momento di nemici della nazione turca tout court. Quindi - lo sappiamo bene - quando si gioca la polarizzazione delle posizioni, se tu non sei con me, sei necessariamente contro di me, ma non tanto per il fatto che sei cristiano ma per il fatto che la pensi diversamente.








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