2016-07-04 12:57:00

Iraq. Attentato a Baghdad: oltre 210 morti di cui 25 bambini


L’attentato che ha colpito sabato notte Baghdad in un quartiere prevalentemente sciita è di sicuro il più sanguinoso attacco in Iraq dal 2007. Il kamikaze del gruppo estremista sunnita ha fatto esplodere una vettura imbottita di esplosivo causando più di 200 morti e altrettanti feriti. L’attentato rivendicato dall’Is potrebbe essere ricollegato al conflitto storico tra sciiti e sunniti. Infatti poco più di una settimana fa il governo di Baghdad, in prevalenza in mano agli sciiti, ha ripreso il controllo di Falluja, che era roccaforte dei sunniti e dell’Is. Il sedicente Stato Islamico negli ultimi mesi ha perso il controllo di diversi territori, tra cui la città di Ramadi e la provincia di Anbar, e controlla solo il 14% del territorio iracheno. Perdite che non hanno scoraggiato la capacità dei jihadisti di colpire e seminare la morte. Gioia Tagliente ne ha parlato con Stefano Allievi, direttore del Master sull’Islam in Europa dell’Università di Padova: 

R. – Lo Stato Islamico da quando esiste, ha messo gli sciiti nel novero dei miscredenti e quindi dei nemici della fede, secondo la loro interpretazione. E questa è una opinione molto diffusa, anche in altri Paesi dell’area. Di conseguenza, ne traggono le estreme conseguenze e questo ormai già tempo: gli attentati sono stati molti, anche soltanto in questo ultimo anno, contro moschee sciite e in quartieri sciiti. Quindi non è purtroppo una novità, anche se per le dimensioni, è certamente più significativo di altri.

D. – L’Is sta perdendo un significativo controllo territoriale, contestualmente però si intensificano gli attentati. Potrebbe esserci un nesso?

R. – Potrei rispondere in due modi. Da un lato che questa sia una strategia effettiva: far vedere cioè che, se anche gli si riduce lo spazio territoriale e geografico all’interno del cosiddetto Califfato, è comunque in grado di colpire altrove. Dall’altro, si tratta di fatto di persone collegate all’Is, ma non centralmente “teleguidate” o non sempre. Qui c’è un evidente coordinamento o collegamento, ma non necessariamente un coordinamento operativo. Per cui certamente assisteremo ancora ad altri attentati fuori dal territorio dell’Iraq e della Siria, dove lo Stato Islamico è presente, perché questo è il loro obiettivo e questo è quello che fa notizia: così come ha fatto più notizia l’attentato di Dacca rispetto a quello di Baghdad, nonostante i numeri siano molto più pesanti a Baghdad…

D. – Perché si va a colpire l’Occidente?

R. – Questo, appunto, risponde a una strategia, ma è anche una testimonianza del fatto che il supporto allo Stato Islamico da parte di gruppi armati è un po’ ovunque – in Asia, nel Maghreb, in Africa – ed è sempre più forte.

D. – Anche in Europa comunque…

R. – Lo abbiamo visto a Bruxelles, a Parigi e lo vedremo altrove: nel senso che questa cosa non si è fermata, perché non se ne sono fermate le ragioni. E’ una battaglia ideologica di lungo periodo e quindi c’è da temere che le cose andranno avanti.

D. – E’ possibile porre fine a questa divisione tra sciiti e sunniti, secondo lei?

R. – E’ nata con l’inizio dell’islam ed è difficile immaginare che vi si ponga fine. In fondo le guerre religiose interne sono sempre state quelle più sanguinose, più fratricide. E’ difficile immaginare che ci sia una fine a portata di visuale, se non attraverso lo sviluppo, la cultura, la formazione, tutte cose di lungo periodo. Per quanto riguarda gli attentati dello Stato Islamico anche in Occidente è ancora più complesso, perché certamente l’esistenza del cosiddetto Califfato è un elemento attrattivo molto forte, che moltiplica il supporto medesimo. Se anche fosse distrutto militarmente nelle terre in cui è, non sono finite le ragioni che alimentano questa ideologia di conflitto.

D. – La maggior parte degli attentatori provengono da buone famiglie e hanno una istruzione elevata…

R. – Io non sono affatto convinto che la spiegazione – anche degli attentati in Europa – abbia a che fare con la marginalità delle comunità immigrate e con le difficoltà di integrazione. E’ una battaglia ideologica! E come tale coinvolge anche le persone che sono in grado di relazionarsi con una ideologia, di maturarla ed approfondirla. E queste le troviamo a tutti i livelli della scala sociale… Già negli attentati dell’11 settembre avevano una vasta presenza di ingegneri: Mohamed Atta, che era il capo del commando, stava facendo un dottorato in Germania… Quindi non è nuovo, nella storia, il terrorismo in generale: che si tratti delle Brigate Rosse o di Baader Meinhof ; del Terrorismo Nero o di quello anche etnico; basco o irlandese… Non erano mai le fasce più marginali a essere quelle più rappresentate: certamente non nella dirigenza. Possono rappresentare una parte della manodopera, ma spessissimo si tratta di persone con una formazione elevata o molto elevata. 








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