2016-06-26 09:02:00

Caporalato: braccianti in condizioni di quasi schiavitù


Un lavoro regolare, tutelato ed equamente compensato: lo hanno chiesto gli oltre 15 mila  braccianti e operai agricoli che ieri, a Bari, sono scesi in piazza in occasione dello sciopero di otto ore proclamato dai sindacati confederali Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil contro il caporalato e il lavoro nero in agricoltura, per il rinnovo dei contratti provinciali di lavoro e per un lavoro di qualità. Soltanto pochi giorni fa, alla Camera, era stato presentato il secondo Rapporto #FilieraSporca dal titolo “La raccolta dei Rifugiati. Trasparenza di Filiera e responsabilità sociale delle aziende”, promosso da Terra! Onlus, Associazione del Sud e Terrelibere.org. La crisi del settore agrumicolo, l’assenza di trasparenza della Grande Distribuzione Organizzata, e lo sfruttamento di lavoratori italiani e richiedenti asilo, è  la denuncia del rapporto, sono “tre piedi dello stesso blocco di ingiustizie che soffocano il Made in Italy”. Francesca Sabatinelli ha intervistato Fabio Ciconte, portavoce della campagna:

R. – Questo secondo Rapporto di Filiera Sporca svela le cause reali del caporalato. Abbiamo denunciato come la raccolta delle arance in Sicilia sia stata fatta, in parte, dai richiedenti asilo di Mineo: persone che teoricamente non potrebbero lavorare, perché non potrebbero avere un contratto di lavoro e che per questo vengono sfruttate e pagate 10 euro al giorno. Una paga da fame, che li riduce in condizioni di para schiavitù. Ma abbiamo raccontato anche il caso di italiani che vengono sfruttati con contratti fasulli o a cui addirittura le aziende prelevano a monte i famosi 80 euro di Renzi… Insomma abbiamo svelato un meccanismo che continua imperterrito ad andare avanti e lo abbiamo fatto ad un anno di distanza, che abbiamo dovuto contare – nostro malgrado – attraverso i morti sul campo: oltre 10 persone, italiane e straniere, morte per raccogliere prodotti che noi mangiamo ogni giorno.

D. – Chi sono i protagonisti di questa filiera, che voi avete definito – e i fatti vi danno ragione – “filiera sporca”? Dove si inizia e dove si arriva?

R. – E’ una filiera in cui convivono tutti: ci sono i braccianti; ci sono le aziende locali; c’è la grande distribuzione; c’è la criminalità organizzata e quindi le mafie e ci sono i grandi gruppi industriali. Se convivono tutti in questa filiera è chiaro che la responsabilità va, in qualche modo, distribuita. E’ per questo che noi abbiamo chiesto conto alle aziende dalla grande distribuzione alle multinazionali, chiedendo rassicurazioni su come loro evitano che questi prodotti dello sfruttamento arrivino sui banchi del supermercato: su dieci aziende che noi abbiamo contattato, il dato probabilmente più grave è che solo quattro hanno risposto; delle quattro soltanto una ha risposto con una percentuale di trasparenza al 90 per cento.

D. – In che modo – a vostro giudizio – si potrebbe interrompere questa catena del malaffare e questa catena anche di morti?

R. – Dobbiamo concentrarci su misure preventive: noi dobbiamo cioè prevenire il verificarsi del fenomeno. Non è sufficiente punire il caporale, che è soltanto un pezzo di questa filiera, ma dobbiamo intervenire sulla prevenzione. Per farlo abbiamo chiesto un incontro urgente con il ministro Martina, per esporgli le nostre proposte: la principale è una legge sulla trasparenza, che preveda l’introduzione di una etichetta narrante, che racconti la vita del prodotto e che ci dica – per esempio – l’elenco dei fornitori che ci sono lungo questa filiera. E questo perché noi dobbiamo attivare un meccanismo di controllo sociale dei consumatori, dei cittadini a livello nazionale e a livello locale, che impedisca il verificarsi del fenomeno.








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