2016-06-19 10:08:00

La sfida del Pime in Camerun tra miseria e Boko Haram


La diocesi di Yagoua (Yaguà), si estende, grande quanto la Lombardia, nell’estremo nord del Camerun. Un’area che s’insinua tra Nigeria e Ciad, in una zona diventata ad alto rischio per i frequenti attacchi ad opera del gruppo terrorista islamico di Boko Haram. Ed è qui che operano da tempo la Caritas e una rete di missionari, in particolare a beneficio delle decine di migliaia di rifugiati e sfollati. Lucas Duran ha raggiunto fratel Fabio Mussi, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), coordinatore per la Caritas nella diocesi di Yagoua:

R. – Da gennaio 2014, sono iniziati gli attacchi da parte di Boko Haram e, gradulamente, sono aumentati. C’è stata poi un’evoluzione verso degli attacchi terroristici da parte di kamikaze, soprattutto di bambini o bambine che si facevano saltare in aria con dell’esplosivo.

D. – Anche i missionari della diocesi sono obbligati a muoversi con una scorta armata?

R. – Non tutti i missionari: solo quelli più esposti per certi tipi di impegni o di situazioni in cui vivono sono obbligati ad avere una scorta di miltari al seguito. A seconda dei posti in cui vado, ho più o meno dai due agli otto militari di scorta. Anche questo rallenta un po’ le attività e, a lungo termine, pesa anche psicologicamente sul nostro lavoro.

D. – Da dove provengono gli appartenenti ai nuclei di Boko Haram che operano nel nord del Camerun?

R. – Inizialmente, erano persone nigeriane. Attualmente non è più così: ci sono persone camerunesi che sono della stessa etnia che è al di là della frontiera, l’etnia Kanuri. Quindi, non è più un problema solo nigeriano, ma è un problema della sottoregione: una realtà come questa non avrebbe potuto svilupparsi così tanto se non avesse trovato degli appoggi concreti anche nella nostra regione. Quando i giovani non riescono a trovare lavoro, non hanno prospettive, si lasciano prendere da questi abbagli, da gente che promette loro un salario. E quando una persona ha in mano un’arma, dopo aver subito in passato le angherie da parte di chi aveva le armi, cerca adesso di imporle agli altri.

D. – Quali sono gli ambiti più importanti e anche più urgenti nei quali vi trovate ad operare?

R. – Penso sia meglio partire dagli ambiti più urgenti, che sono i problemi legati all’emergenza umanitaria relativa ai rifugiati nigeriani e agli sfollati camerunesi. In totale, all’apice della crisi, abbiamo avuto circa 90 mila tra rifugiati e sfollati. Logicamente è un grosso numero, che è stato poi suddiviso tra le due categorie: quella dei rifugiati e degli sfollati. Lo Stato del Camerun ha infatti deciso di avere un solo campo per rifugiati a Minawao, che accoglie attualmente più o meno 50 mila persone: più o meno perché ogni settimana il numero esatto cambia. Gli sfollati, invece, sono attualmente dai 40 ai 50 mila. Non sono delle statistiche molto precise: delle volte ci sono gruppi che rientrano nei loro villaggi e altri che, a loro volta, diventano sfollati a causa degli attacchi sulla frontiera. E tutto ciò ci riguarda direttamente visto che ci troviamo sulle due frontiere, del Ciad e della Nigerial, e abbiamo quindi anche un problema di passaggio di persone da uno Stato all’altro. Fino a due anni fa, era più  frequente uno spostamento di persone che andavano dal Ciad o dal Camerun verso la Nigeria. Attualmente, è esattamente il contrario: ci sono delle persone che ritornano. Quindi i “ritornati” – come li chiamiamo noi – del Camerun o del Chad, che rientrano nei loro Paesi lasciando un po’ tutto e hanno dei grandi problemi di installazione, e in più i rifugiati nigeriani. Con le nostre forze non possiamo occuparci di tutto. Dobbiamo quindi occuparci solo di alcune categorie, quelle più a rischio come le donne incinte, le persone ammalate o anziane e i bambini sotto i dieci anni, perché sono quelli più a rischio. Finora, nei momenti più critici, siamo riusciti a occuparci da 10 fino a 12 mila persone di queste categorie.








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