2016-06-08 15:50:00

Amministratori sotto tiro: al Mezzogiorno aree sotto assedio


L'Italia a due velocità. Una del nord con cifre basse per quanto riguarda i sindaci oggetto di intimidazioni e una del mezzogiorno in cui i numeri sono impressionanti. Sono preoccupanti dunque i dati grezzi dei primi 5 mesi dell’anno, presentati da Avviso Pubblico, degli amministratori locali che ricevono minacce e violenze a causa del proprio lavoro o semplicemente perché applicano le regole, pratica rimasta inascoltata per anni. Calabria al primo posto, seguita da Sicilia e Campania. La rete sociale si conferma come il fattore più importante che aiuta a resistere, mentre il periodo in cui si ricevono più minacce è sicuramente in occasione delle campagne elettorali, soprattutto in quest’ultima. Il 24 giugno a Polistena comune nella provincia di Reggio Calabria, si svolgerà la prima marcia nazionale degli Amministratori sotto Tiro. Al microfono di Valentina Onori, Don Pino Demasi, parroco della città e referente di Libera per la piana di gioia Tauro spiega la difficoltà della chiesa nel cercare di cambiare la mentalità mafiosa:

R. – Credo che sia proprio il lavoro più difficile, ma è un lavoro importante e necessario: aiutare questi ragazzi ad uscire da questa mentalità è un’impresa ardua, ma è molto bella. E la parrocchia sta scommettendo proprio su questo. Oggi lo slogan che ci accompagna è “Noi partigiani di una nuova resistenza”. Il nostro compito è quello  di riprenderci il territorio, ma riprenderci soprattutto il cuore e la libertà delle persone che la mafia ha calpestato.

D. – Quali sono i problemi che incontra tutti i giorni?

R. – Spesso la difficoltà per la gente a capire l’importanza del cambiamento, perché il cambiamento è difficile: in territori in cui la paura ha regnato sovrana, le persone ancora stentano… Credo però che nel coraggio dei pastori la gente ritrovi il proprio coraggio. E questo lo sperimento, giorno per giorno, nell’impegno e nel coraggio mio, ma anche nell’impegno e nel coraggio di tanti giovani, di tanti laici. La difficoltà sta proprio qui, nel dare alla gente comune pillole di speranza.

D. – C’è sempre un lavoro quotidiano…

R. – Io dico sempre che siamo in guerra e in guerra ci sono tante battaglie e c’è una strategia: noi abbiamo la nostra strategia, la delinquenza organizzata e l’Ndrangheta ha la propria strategia. Potremmo vincere la guerra puntando adesso sull’educazione dei figli dell’Ndrangheta: che possano vedere concretamente un modo diverso di vivere e siano poi liberi di scegliere. Dalla nostra parte abbiamo stranamente e per la prima volta le mamme: capiscono che l’Ndrangheta non può dare futuro ai loro figli, perché la repressione funziona, perché  la legge sui beni confiscati funziona e ai loro figli non possono dare né potere né ricchezza; e allora che senso ha farli incamminare su questa strada?

D. – Pochi giorni fa è accaduto l’ennesimo inchino durante una processione: episodi spiacevoli che fanno, poi, perdere la speranza…

R. - Noi vediamo da un periodo in cui anche spezzoni di Chiesa non hanno brillato certamente in questa lotta per il cambiamento. Volontariamente o involontariamente sono stati conniventi con un sistema mafioso: al mafioso non interessano i santi, ma interessa il consenso. Grazie a Dio, però, in questo momento c’è tanto di positivo: la Chiesa si è svegliata! Le chiese e i templi del sud la domenica sono pieni di gente e allora interroghiamoci: come è possibile che quelle stesse persone siano poi conniventi con le mafie? Non c’è evangelizzazione senza liberazione da tutto ciò che è male, da tutto ciò che offende la dignità e la libertà delle persone.

Michele Albanese, cronista in Calabria del “Quotidiano del Sud” vive sotto scorta per le inchieste che ha condotto sul territorio con cui vuole smuovere la coscienza civile. C'è ancora molto da fare, ma qualcosa si sta muovendo:

R. – Il futuro del nostro Paese si gioca soprattutto nella voglia e nel desiderio delle persone di impegnarsi nelle istituzioni che rappresentano il primo fronte di dialogo con i cittadini.

D. - Lei vive sotto scorta: qual è la testimonianza diretta?

R. - Per un giornalista vivere sotto scorta è come se gli spezzassero una gamba. Io mi sforzo di dare una testimonianza di compostezza e di serietà anche nell’uso della scorta, anche se questo porta sacrifici enormi, perché noi dobbiamo ritrovare il gusto per l’impegno serio, responsabile nel raccontare un territorio difficile cercando di dare una testimonianza di correttezza e di responsabilità.

D. - Quanto le sue inchieste condizionano la coscienza civile?

R. – Quando accade una cosa vado a sentire la gente, vado a sentire i singoli. Alcuni reagiscono in un determinato modo, altri in un altro. I parroci che dicono: “Io posso solo pregare”, quasi sfuggendo dalla realtà. Cerco di fare il mio lavoro cercando di suscitare reazioni sociali, civili da parte della mia gente. Il problema è costruire insieme ad altri soggetti la consapevolezza di stabilire da che parte si sta. È facile girarsi dall’altra parte.

D. – Quanto incidono i giovani?

R. - È importantissimo lavorare con i giovani. Se non si investe concretamente nel cercare di cambiare la mentalità dominante, quella intrisa di paura, di isolamento, di rassegnazione, di omertà, noi perdiamo la partita.

D. - I tre ingredienti principali? Chiesa, istituzioni e media …

R. - Assolutamente si. Quando due anni fa scrissi per primo il pezzo sull’inchino di Oppido venni descritto come un nemico della Chiesa ed è una cosa che mi ha fatto terribilmente soffrire perché vengo da questo mondo, per cui non posso accettare questo fatto, soprattutto da parte di quella piccola parte di chiesa che non capisce che noi crediamo non in qualcuno che è venuto qui e ci ha detto: “Dovete fare così, così, così … “ e se ne è andato, ma qualcuno che ci ha dato testimonianza diretta arrivando persino a morire di una morte atroce; mi riferisco al nostro Cristo. Di fronte a quelle braccia aperte, spente dalla violenza dell’uomo, che racchiudono il coraggio della speranza, noi dobbiamo scegliere da che parte stare. Non possiamo non stare dalla parte della legalità, della trasparenza, della gratuità, della correttezza e della speranza. Spesso si preferisce volare alto anziché intervenire, come se un uomo ha un tumore tu ammazzi l’uomo e non rimuovi il tumore laddove esso è posizionato.

Il sindaco di Polistena Michele Tripodi, 38 enne al secondo mandato di sindaco più volte oggetto di minacce porta la sua testimonianza diretta delle difficoltà che vive ogni giorno la sua amministrazione:

R. – Non vogliamo sfuggire al problema delle mafie proprio ricordandolo ogni giorno. Facciamo delle iniziative come la presentazione di libri, prendiamo delle testimonianze importanti – anche di vittime di mafia -, invitiamo magistrati, … È un percorso che non avrà termine perché sappiamo bene che la battaglia alle mafie è lunga. Polistena è un comune che ai suoi ingressi ha dei cartelli che recano la scritta: “Benvenuti a Polistena, Comune antimafia, comune per la pace e città d’arte”. Però al primo posto c’è proprio “Comune antimafia”. È un biglietto di presentazione importante.

D. - Si sente un sindaco sotto tiro?

R. - Io ho ricevuto tante intimidazioni. La più grave  è stata il deposito di un pacco bomba che non poteva esplodere perché gli ingranaggi non erano collegati tra loro. Potevano essere assemblati, quindi mi è stato lanciato un messaggio chiaramente intimidatorio, ma ad ogni intimidazione abbiamo risposto con una manifestazione pubblica, non ci siamo mai segretati questo tipo di avvenimenti. Abbiamo sporto denunce ma abbiamo anche risposto con le persone oneste di Polistena, per dire che queste intimidazioni devono essere respinte e rimandate al mittente.

D. – Qual è la migliore forma di protezione a prescindere dalla scorta? Forse è proprio questo, l’appoggio della popolazione?

R. – Si, la cosiddetta “scorta civica”. Quando si ha il sostegno della gente, il popolo che non solo sostiene ma acclama anche in momenti difficili, importanti, credo che sia la cosa più bella e credo anche che a livello sociale sia un messaggio che indirettamente viene lanciato alle mafie, perché le mafie hanno paura di perdere consenso.

D. – A livello istituzionale, che proposte sarebbero giuste secondo lei per dare definitivamente un messaggio ancora più forte?

R. – Adeguare la legislazione sugli appalti, quella sulla confisca e il riuso dei beni sociali e adeguare i comuni delle risorse per poter dare delle risposte alla gente.

D. - Come comuni vi sentite esposti e vi sentite poco coperti dallo Stato?

R. - Sì. Devo dire di si. Noi siamo le prime linee. Spesso non abbiamo le armi per combattere con questi continui tagli che ci sono stati da parte del governo. Purtroppo noi denunciamo sempre la scarsità di risorse, la normativa restrittiva per cercare di redistribuire meglio le poche risorse a disposizione. Da anni troviamo un muro di gomma.

 

 

 








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