2016-05-07 16:00:00

Rifugiati "parcheggiati" in Centri di accoglienza inadeguati


Un approccio concepito per essere temporaneo che assume valenza portante di un sistema. E' questa l'anomalia dei Centri di accoglienza straordinaria italiani (Cas) rilevata dal Rapporto "Asilo Precario" di Medici per i diritti umani (Medu). Per 14 mesi psicologi e medici hanno raccolto le testimonianze dei richiedenti asilo nei Cas di Ragusa che ospitano oltre 70 mila persone, riscontrando gravi criticità: dalla mancanza di un'adeguata assistenza psicologica per chi ha subito torture all'assenza totale di percorsi d'inclusione sociale. Valentina Onori ha intervistato Flavia Calò coordinatrice e psicologa di Medici per i Diritti Umani (Medu) che ha preso parte al Rapporto ascoltando la voce dei rifugiati:

R. – Abbiamo preso in esame alcune delle criticità rilevate e che sono sicuramente la struttura e la collocazione:  molti di questi Centri di accoglienza straordinaria (Cas) sono in estrema periferia, quasi in campagna, dove non c’è alcun mezzo di trasporto e quindi i migranti non possono accedere alla vita comunitaria del Paese, così come ai servizi. Questo rispetto alla struttura e alla collocazione. Non ci sono operatori adeguatamente formati a leggere le vulnerabilità, a comprendere queste vulnerabilità e quindi a gestirle. Non ci sono operatori formati per poter costruire delle attività ludico-ricreative, che molto spesso servono al migrante e servono al benessere del centro stesso. Non ci sono operatori formati nel dare l’assistenza legale, che è poi molto importante per i richiedenti asilo e per andare adeguatamente preparati riguardo a quello che sarà la loro domanda di asilo e quindi la Commissione territoriale che analizzerà la loro domanda di asilo. Altre carenze sono state riscontrate anche rispetto all’assistenza psicologica: non ci sono psicologi all’interno dei Centri di accoglienza straordinaria. Ci sono delle figure che hanno una formazione in psicologia, ma non sono inserite con un ruolo da psicologo. Questo significa non poter fare uno screening precoce delle vulnerabilità, significa non avere comportamenti adeguati per le persone che hanno subito delle violenze estreme e che magari riportano un disturbo post-traumatico da stress o addirittura un disturbo post-traumatico da stress complesso, che ha delle caratteristiche specifiche. Ci sono mediatori culturali, ma spesso non svolgono proprio il ruolo di mediatore culturale: alcune volte si limitano all’interpretariato puro.

D. – Nel rapporto si è parlato di una “accoglienza capovolta”: può spiegarci meglio cosa significa?

R. – Significa che questi centri dovrebbero raccogliere un numero minimo di persone proprio per una esigenza straordinaria e la maggior parte delle persone dovrebbero invece essere accolte all’interno dei sistemi Sprar, che dovrebbero rappresentare l’accoglienza ordinaria.

D. – Quali sono le vostre proposte?

R. – Riteniamo assolutamente prioritario superare la logica di un sistema che risulta capovolto e dove l’emergenza diventa ordinaria; ma anche promuovere l’ampliamento strategico del Sistema Sprar, l’unico che poi si è dimostrato effettivamente in grado di garantire le condizioni di vita dignitose e servizi di qualità, anche facilitando l’integrazione dei richiedenti sul territorio.

D. – Cosa vi augurate per il futuro, soprattutto alla luce di quanto sta avvenendo nei centri di accoglienza?

R. – Il 2011 è stato il boom degli arrivi e quindi siamo entrati in una logica di emergenza. Ma ora sappiamo che l’Italia è terra di arrivo e terra di accoglienza per cui dobbiamo strutturare in modo adeguato questa accoglienza, con tutti i servizi relativi. Per poter far sì che queste persone non vengano solamente parcheggiate, ma vengano anche accolte e poi integrate all’interno della nostra società.

D. – La cura di che fate in questi Cas va oltre l’emergenza?

R. – Decisamente sì! Conteniamo e ascoltiamo la persona appena arrivata, però le offriamo e progettiamo un percorso di cura e riabilitativo adeguato.

D. – Qual è la più comune situazione che ha riscontrato in queste persone?

R. – Nel 35 per cento dei casi le persone richiedenti asilo, che abbiamo incontrato, hanno subito esperienze traumatiche estreme, come la tortura e trattamenti disumani e degradanti nel loro Paese; gli altri hanno subito ugualmente esperienze traumatiche estreme, come la tortura e sempre trattamenti disumani e degradanti lungo la rotta migratoria e soprattutto in Libia, all’interno delle carceri libiche ma anche all’interno di centri, quelli che definiti “foyer” da parte di “Asma boys” o oltri criminali locali libici. Per cui riportano delle ferite psichiche molto importanti, come la fiducia nell’umano che viene completamente rotta. La tortura è questo, perché è una azione uomo contro uomo. La cosa primaria che si rompe è la fiducia nelle relazioni umani e nell’altro uomo. Noi proprio su quello dobbiamo ricucire e dobbiamo cercare di offrire un’accoglienza adeguata per ristabilire proprio questa relazione di fiducia. 








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