2016-04-21 13:33:00

Obama a Paesi Golfo: compatti contro Is. Fabbri, linea non cambia


Una rinnovata spinta nella campagna contro il sedicente Stato islamico (Is), con un maggiore coinvolgimento politico e finanziario. È l’obiettivo della missione del presidente statunitense, Barack Obama, che da stamani a Ryad sta incontrando i leader dei Paesi del Golfo. Il summit, che giunge a un anno dall’analoga riunione a Camp David, riunisce Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Oman e Bahrein. Per il capo della Casa Bianca, si tratta anche di un’occasione per affrontare le preoccupazioni regionali per l'apertura di Washington verso l'Iran, ma in primo piano rimane la lotta al Califfato e la ricostruzione delle città riprese all'Is. Al riguardo, è possibile coinvolgere maggiormente le monarchie del Golfo? Risponde Dario Fabbri, analista della testata di geopolitica “Limes”, intervistato da Giada Aquilino:

R. – E’ possibile, ma non sarà il coinvolgimento che si aspettano gli Stati Uniti. Ormai, da tempo lo Stato islamico è considerato soprattutto dall’Arabia Saudita, in questo senso, una minaccia, mentre qualche anno fa era invece semplicemente uno strumento utile per rovesciare al Assad e il regime siriano. Adesso, anche l’Arabia Saudita e altre petro-monarchie considerano l’Is una minaccia. Ma tra considerarlo un elemento negativo e affrontarlo realmente da un punto di vista militare ce ne passa. Tutto sommato, l’atteggiamento nei confronti dello Stato islamico da parte di questi Paesi resterà lo stesso degli ultimi tempi: cercare di contenerlo in Siria, senza sconfiggerlo del tutto perché, appunto, potrebbe ritornare utile sia contro il regime di Damasco sia contro quello, sempre sciita, di Baghdad.

D. – Come è possibile rassicurare gli alleati sunniti – come appunto Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi, Kuwait, Oman, Qatar – che non vedono di buon occhio le aperture statunitensi agli sciiti iraniani?

R. – Non c’è modo di rassicurarli. Ci si può provare, ma l’approccio americano al Medio Oriente è questo e non cambierà neanche in un prossimo futuro, checché ne sperino anzitutto i sauditi che attendono con trepidazione l’elezione soprattutto di Hillary Clinton, mentre temono quella di Trump. Anche se non dipende dai presidenti, in realtà: l’approccio americano resterà questo e sarà un approccio che, di fatto, è un tentativo di equilibrio con le principali potenze della regione – Turchia, Arabia Saudita, Israele e anche Iran – e non muterà.

D. – Sul piatto cosa c’è? Interessi petroliferi, margini per nuovi spazi di azione?

R. – C’è il tentativo da parte americana di mantenere, comunque, buoni rapporti con l’Arabia Saudita. Ciò che è cambiato è che, se prima gli Stati Uniti, fino a 10 anni fa, avevano un approccio quasi esclusivamente pro-sunnita nella regione, passando dalla Turchia – che non è un Paese arabo, ma comunque sunnita – fino all’Arabia Saudita e altre "petro-monarchie", adesso gli Stati Uniti guardano anche dall’altra parte. Dobbiamo calcolare che l’Arabia Saudita, Ryad, dipende dagli Stati Uniti e quindi non ha un grande margine di manovra da un punto di vista dell’ombrello difensivo e militare: l’Arabia Saudita non è in grado di difendersi da sé.

D. – Come leggere allora le polemiche che sono riemerse nelle ultime ore riguardo a notizie che vedrebbero un coinvolgimento dei sauditi nei finanziamenti a Osama Bin Laden, responsabile degli attentati dell’11 settembre?

R. – Bisogna leggerle proprio in questo cambiamento di approccio statunitense. Sono un fatto molto importante, perché provengono dal Congresso, dal parlamento americano: il parlamento americano è l’istituzione più importante del Paese, nettamente più importante anche del presidente, ma è anche quello che, anche per interessi personali dei vari parlamenti, è sempre stato più legato all’Arabia Saudita. Evidentemente, questa forma di minaccia di scoperchiare legami tra l’Arabia Saudita e gli attentatori dell’11 settembre rappresenta una vera e propria svolta, che ci porta verso il proseguimento di questo approccio distaccato da parte americana nei confronti delle petro-monarchie. Un approccio che porta verso un equilibrio di “potenza” nella regione e vede l’Arabia Saudita come uno dei Paesi più importanti, ma non più – insieme ad Israele – interlocutore principale della superpotenza.

D. – Un’altra tappa della trasferta di Obama sarà il vertice informale di lunedì in Germania su terrorismo e immigrazione. Su cosa si punterà? Si è letto di sforzi congiunti, maggiore condivisione delle informazioni…

R. – Sicuramente, si discuterà di questo. C’è margine per aumentare la cooperazione da un punto di vista dell’intelligence. Diverso è il discorso dei migranti, che Washington ritiene semplicemente un problema europeo ed è un approccio che non sarà risolto nel vertice dei prossimi giorni, ma che resterà così. Detto in poche parole: possiamo aiutarvi sul terrorismo, ma i migranti restano affare vostro e dovete riuscire ad affrontare la minaccia senza spaccare, senza disintegrare l’Unione Europea. Cosa che invece è ciò che sta puntualmente accadendo.








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