2016-04-16 10:08:00

Giornata mondiale contro la schiavitù infantile


Ricorre oggi la Giornata mondiale contro la schiavitù infantile. In questa data, 21 anni fa, moriva un bambino pakistano di soli dodici anni, Iqbal Masih, ucciso per  aver ottenuto dalle autorità pakistane la chiusura di molte fabbriche di tappeti che sfruttavano i bambini. Iqbal denunciò le mafie tessili pakistane riuscendo ad attirare l’attenzione a livello internazionale. Maria Laura Serpico ha parlato di lavoro minorile forzato, una delle forme più diffuse di schiavitù infantile, con il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini:

R. – La più alta percentuale di bambini lavoratori si trova in Asia meridionale, dove il 25% è tra i 5 e i 14 anni. Sono 150 milioni i bambini fra i 5 e i 14 anni che vengono sfruttati nel lavoro nei Paesi in via di sviluppo: praticamente il 16% di tutti i bambini di questa fascia di età. Quindi, è un numero altissimo! Nei Paesi meno sviluppati – per capirci – c’è un bambino o un ragazzo su quattro che lavora e in quasi tutte le regioni del mondo – quelle di cui abbiamo parlato – ci sono le stesse probabilità di diventare bambini lavoratori per i ragazzi e per le ragazze. In Medio Oriente, in Nord Africa, in America Latina e nei Caraibi i ragazzi hanno qualche possibilità in più rispetto alle ragazze di lavorare e quindi le disparità di genere si verificano a seconda delle attività svolte: le ragazze hanno più probabilità di essere sfruttate per i lavori domestici, rispetto ai ragazzi. L’Asia meridionale, però, secondo me, è il posto con le evidenze maggiori, in cui ci sono 77 milioni di bambini lavoratori: il caso più eclatante è il Pakistan, in cui l’88% dei bambini tra i 7 e i 14 anni non va a scuola e lavora; ma anche il Bangladesh, dove circa la metà – il 48% – vive in queste condizioni. Seguono poi l’India con il 40% e lo Sri Lanka con il 10%. E’ chiaro che noi cerchiamo di lavorare - come Unicef - contro lo sfruttamento del lavoro minorile con programmi di sensibilizzazione e di prevenzione. Cerchiamo di reinserirli a livello scolastico lavorativo e cercando, laddove non ci siano delle legislazione, di prevedere degli orari flessibili, delle metodologie didattiche partecipative, cercando naturalmente di contribuire a quella che è l’attività quotidiana, senza incidere troppo sul fisico dei bambini.

D. – Perché la questione  viene affrontata solo marginalmente?

R. – Perché non ci sono numeri chiari e perché esistono governi in tutto il mondo che hanno delle legislazioni che non prevedono l’obbligo dei 18 anni per il lavoro. Purtroppo, spesso, gran parte di queste attività è sommersa e di difficile identificazione.

D. – Oggi gli abitanti del nord del mondo sono ancora responsabili della miseria dell’infanzia del sud?

R. – Questa è una cosa che ci stiamo raccontando e di cui si parla da sempre… Esistono sicuramente delle responsabilità: delle responsabilità morali, delle responsabilità storiche, delle responsabilità economiche. Oggi viviamo in una fase storica in cui appare chiaro che i tagli ai fondi della cooperazione per tutti i Paesi rendono abbastanza macroscopico il fatto che non si investa più nel finanziamento di Paesi che dovrebbero avere nel lavoro il fulcro della loro ripresa e quindi purtroppo – di conseguenza – il quadro si aggrava: la crisi economica, in questo senso, non ha aiutato! I primi tagli che sono stati fatti sono stati proprio nei confronti di quelle attività che, in qualche modo, ciascun Paese faceva per aiutare i Paesi – per esempio – del Nord Africa o dell’Africa Centrale nel caso dell’Italia o dell’Asia nel caso di altri Paesi. Quando si parla “nord” e “sud”, secondo me, è necessario andare oltre. Oggi dobbiamo anche dire che esistono dei Paesi che prima facevano parte del sud e che sono clamorosamente diventati nord ed altri che sono rimasti sempre sud. Bisogna evitare che questi Paesi siano un buon motivo per i Paesi del nord per fare affari: mi sembra che questo ancora si verifichi.

D. – Quali sono le condizioni in cui questi bambini sono costretti a lavorare?

R. – Diciamo che le condizioni sono abbastanza diverse. In alcuni Paesi, naturalmente, fanno orari molto stressanti, vivono per giorni e giorni nelle miniere, per ore e ore nei campi. Dobbiamo distinguere dal tipo di lavoro che fanno, perché spesso in Paesi molto poveri – e ricordiamo che la povertà è la causa principale dello sfruttamento e della schiavitù minorile – è chiaro che le famiglie hanno bisogno di braccia in attività che sono spesso non così pesanti; ma è vero anche che vengono sottoposti a grandi sforzi, specialmente in alcuni Paesi dell’Asia o dell’America del Sud: cito il caso della Bolivia, perché tempo fa abbiamo visto che molti bambini venivano sfruttati proprio all’interno delle miniere e con orari massacranti! Tutto questo è contrario alle norme della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che vieta questo tipo di pratiche: è stata approvata nell’89 da tutti i Paesi del mondo – e questo lo voglio ricordare! – e vieta questo tipo di pratiche proprio nei confronti dei bambini.

D. – Qual è, appunto, la differenza tra lavoro minorile e sfruttamento?

R. – Il lavoro minorile è un lavoro considerato non usurante sotto certi aspetti: è un lavoro che se sommato a orari scolastici – come noi diciamo – può essere il giusto compromesso per un bambino che vive in contesti dove lavorare – ma lavorare inteso come vendere cartoline o aiutare i genitori in un negozio - fa parte della caratteristica del Paese stesso. Lo sfruttamento vuol dire sottoporre i bambini ad orari massacranti, sottoporre spesso i bambini a violenze, pagandoli in maniera non congrua e ledendo tutti i loro diritti fondamentali.








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