2016-04-06 13:50:00

L'Aquila, 7 anni dal sisma: la lenta "primavera" della città


309 rintocchi della campana della chiesa di Santa Maria del Suffragio, a L’Aquila, sono rintoccati la notte scorsa, alle 3.32, in ricordo delle vittime del terremoto del 6 aprile di sette anni fa. I nomi delle vittime erano risuonati ieri sera nella Basilica di San Giuseppe Artigiano, dove l’arcivescovo metropolita, Giuseppe Petrocchi, ha celebrato la Messa in suffragio delle vittime del sisma. Sulle sfide che vive la popolazione aquilana oggi, Fabio Colagrande ha intervistato don Luigi Epicoco, responsabile del servizio per la Pastorale universitaria della diocesi, scampato al terremoto del 2009:

R. – Dopo sette anni, la sfida è renderci conto che la storia per noi non è chiusa ma sta continuando, e sta continuando in mezzo a tante fatiche, a tante difficoltà che vorremmo trasformare in opportunità, ma non sempre riusciamo a farlo. Dico questo perché l’attenzione dei media ormai è sempre più rara e questo non aiuta. Non tanto perché i media potrebbero portare una soluzione, ma perché in certi momenti si ha il bisogno di non sentirsi soli.

D. – Si parla di 14 miliardi di euro spesi finora nel cantiere del centro storico. Visitando L’Aquila oggi, sembra davvero che quella parte – la più ferita della città – stia molto lentamente rinascendo. Qual è la sua impressione?

R. – La mia impressione è che le periferie siano state recuperate in maniera significativa e tanta gente nelle periferie sia tornata a vivere nelle proprie case. Per il centro storico, il discorso è diverso. Non è semplicemente uno scrigno di arte: il centro storico, per la città dell’Aquila, era il cuore pulsante, il cuore antropologico, sociale della città. Quelle strade, quel corso, quelle chiese, quelle piazze rappresentavano un po’ l’identità, ma anche il vissuto quotidiano di un aquilano e il fatto di non essere ancora tornati lì, di non aver ri-abitato ancora quella fetta di città, significa non avere una socialità che funziona. Il centro è ancora incapace di ospitare anche la vita dei giovani, dei ragazzi, anche se diversi locali hanno riaperto. C’è sempre una convivenza stringente e stridente tra le macerie e i locali che hanno avuto il coraggio di riaprire nel centro storico.

D. – Nella fiaccolata che c’è stata nella notte tra il 5 e il 6 aprile all’Aquila, settemila persone hanno chiesto verità e giustizia per la strage del 6 aprile di sette anni fa. Che senso hanno queste parole – “verità” e “giustizia” – tra l’altro nell’Anno giubilare straordinario dedicato alla Misericordia?

R. – La misericordia non si contrappone né alla verità, né alla giustizia: non è l’alternativa alla giustizia. La misericordia è un modo di applicare la giustizia. Ma se la misericordia rinunciasse alla verità e alla giustizia, diventerebbe buonismo, sentimentalismo. Invece, mentre da una parte gli aquilani tentano di far pace con questo dolore, dall’altra parte è giusto che si domandi luce e chiarezza su quello che è accaduto. A volte, c’è il rischio di cercare un capro espiatorio, ma non in questo caso. Qui c’è la ricerca di una verità che serve anche a onorare le persone che alla fine non ce l’hanno fatta. Dire una parola chiara su quello che è accaduto fa bene a tutti.

D. – Lei è parroco di San Giuseppe Artigiano, una delle due sole chiese del centro storico su 14 che oggi sono agibili. La vostra comunità sta rinascendo, nonostante tutto?

R. – La mia chiesa è stata riaperta 18 mesi dopo il sisma, con un restauro per il quale dovremmo sempre ringraziare la Fondazione Roma che ha aiutato a ripristinare lo spazio della nostra comunità. La cosa che mi ha sempre colpito, fin dall’inizio, è che ogni domenica nella nostra chiesa ci sono cinque Messe e sono sempre molto frequentate, come se gli aquilani si arrampicassero fino al centro storico, arrivassero qui in mezzo a tantissime difficoltà per giungere in chiesa... Partecipare alla Messa lì significa riprendersi il centro storico, riprendersi la città. E quindi è un modo alternativo, silenzioso, forse anche spirituale per dire: “Noi ci siamo e vogliamo tornare”. E quindi rimane un avamposto di speranza. Aperto, in mezzo alle macerie, ma comunque aperto.

D. – Si può parlare di una nuova primavera che sotto le macerie sta covando?

R. – Certamente. Dobbiamo parlare di questa nuova primavera perché la primavera, come tutte le cose belle, innanzitutto nasce senza essere immediatamente visibile. però, si ha un po’ la sensazione che qualcosa stia venendo fuori, no? Ecco: io credo che ci sia una primavera che stia premendo sotto tutto questo terreno di macerie e di problemi. Ma tutto questo non verrà dalle istituzioni, non verrà da una legge, non verrà da una giurisprudenza particolare, da un diritto, non verrà dall’ingegneria. Verrà dal fatto che ciascuno di noi, ciascuna delle persone che abitano all’Aquila, prenda sul serio questa primavera e se ne faccia un po’ missionario.








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