2016-04-03 09:30:00

Sì del Burundi a polizia Onu nel Paese ma no a forze di pace


Il governo del Burundi accoglie, ma con cautela, il via libera del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite al dispiegamento di una forza di polizia dell’Onu nel Paese per fermare le violenze. Ma dice no a truppe di pace che per l'opposizione invece sono necessarie per porre fine agli scontri che dopo la contestata rielezione del presidente Nkurunziza hanno provocato in un anno oltre 400 morti e 250 mila sfollati. Sul significato della risoluzione Onu, Eugenio Bonanata ha intervistato Anna Bono, docente di Storia dei Paesi e delle istituzioni africane presso l'Università di Torino:

R. – La notizia non giunge inaspettata, perché la situazione in questo Paese è andata peggiorando di mese in mese, di settimana in settimana, soprattutto a partire dall'aprile del 2015, quando il presidente in carica Pierre Nkurunziza ha annunciato di volersi candidare per un terzo mandato presidenziale alle imminenti elezioni e questo violando la Costituzione che limita, in quel Paese, a due mandati il numero di cariche che un cittadino può ricoprire. Questo ha scatenato delle proteste popolari e ha messo in agitazione l’opposizione. Da quel momento in poi la situazione è andata peggiorando, anche perché, nonostante il veto costituzionale, il presidente ha violentemente represso le proteste, andando avanti nella sua decisione: si è candidato; a luglio ha vinto le elezioni ed ora è attualmente in carica.

D. – Questo potrà portare ad un intervento militare nel Paese?

R. – Un intervento militare nel Paese è possibile, perché comunque sia l’Unione Africana, sia il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, contemplano la possibilità di ingerenza – anche militare – in uno Stato sovrano, che di per sé non è ammessa, nel caso in cui ci sia un rischio di genocidio, di crimini contro l’umanità e quindi di pericolo per la popolazione. Nel caso di violazione grave dei diritti umani, il divieto di ingerenza in uno Stato sovrano passa in secondo piano, proprio perché prevale il dovere di prevenire violazioni dei diritti umani, che possano mettere in pericolo una intera popolazione.

D. – In quale misura questa decisione del Consiglio di Sicurezza potrà aiutare il Burundi?

R. – Questa è una risoluzione e mi sembra di capire che i tempi che si è dato il Consiglio di Sicurezza siano molto stretti. Quindi la sua applicazione pratica è tutta da vedere. Dobbiamo tener conto del fatto che il Burundi è uno Stato nazionale, con sovranità nazionale, e un intervento militare è un passo molto, molto serio. C’è un precedente: l’Unione Africana, tre mesi fa, aveva deciso di inviare una forza di pace – forte di 5 mila uomini – proprio per intervenire e mettere fine alle violenze, che nel frattempo continuano nel Paese: quindi repressione, violenze, con il forte rischio di tutto degeneri in un scontro etnico. Ma, nonostante questa decisione presa dall’Unione Africana, poi non se ne è fatto nulla. In un successivo incontro l’Unione Africana ha infatti deciso di non inviare queste truppe e questo proprio in seguito al fatto che il presidente aveva nettamente rifiutato la proposta, sostenendo di essere perfettamente in grado di gestire la situazione.

D. – Cosa serve al Paese?

R. – Di cosa il Paese avrebbe bisogno? In realtà non saprei neanche dire di che cosa, perché ormai questa è una situazione di fatto: il presidente è in carica, è stato eletto; l’opposizione politica se ne è fatta una ragione. Ciò che servirebbe è una iniziativa molto seria e responsabile da parte del presidente e del partito al potere, che rappresenta la popolazione di etnia Hutu. Questo per equilibrare la situazione tra le due etnie, quella Tutsi e quella Hutu; per dimostrare di essere – cosa che credo abbia anche detto, ma nei fatti però non è stato così – "il presidente di tutti": e per ribadire che, pur avendo violato la Costituzione, vuole impegnarsi per la pace e il progresso nel Paese. Però, purtroppo, la situazione al momento è ben lungi dal risolversi, anzi…

D. – Quanto è alto il rischio che la situazione in Burundi possa estendersi anche al Rwanda, per esempio?

R. – Non credo che questo sia il problema più imminente, perché il Rwanda esce da una esperienza di scontro tribale terribile, il genocidio del 1994, e da allora ha fatto passi enormi per far sì che una situazione del genere non si ripeta più. C’è un problema, però: sia in Rwanda che in Burundi, il conflitto e lo scontro sempre temibile è tra Tutsi e Hutu. Sono due Paesi confinanti e quello che può succedere - e che in realtà sta già succedendo - è che la popolazione del Burundi che si sente minacciata, oltrepassi i confini e cerchi scampo alle violenze in Rwanda, così come negli altri Paesi vicini. Quindi questo prefigura uno scenario molto preoccupante, al di là della situazione del Paese: cioè che gli effetti negativi e le conseguenze di uno scontro nel Burundi, che è un piccolo Paese, si ripercuotano in tutta l’area circostante. Come già successo in occasione del genocidio del 1994…








All the contents on this site are copyrighted ©.