2016-03-23 14:29:00

Immigrati. Unhcr: via da "hotspot" di Moria, è una prigione


L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati lascia, così come Medici senza frontiere, Save The Children e altre organizzazioni il campo di d’accoglienza per profughi di Mòria, nell'isola greca di Lesbo. Una decisione grave, presa a seguito dell’accordo tra Unione Europea e Ankara sulla gestione dei flussi migratori. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

Non vogliono essere complici di quello che viene definito “un sistema iniquo e disumano”. Alto commissariato Onu per i rifugiati, Medici senza frontiere e altre importanti organizzazioni umanitarie hanno sospeso le proprie attività nel campo di Moria, sull’isola greca di Lesbo, a seguito dell’accordo sui migranti tra Unione Europea e Ankara. Una struttura prima dalle porte aperte e ora divenuta, è la denuncia, una vera e propria prigione dove un migliaio di rifugiati, compresi vecchi e bambini, spiega Msf, sono confinati nelle loro baracche senza neanche potersi muovere all’interno del campo. E’ una crudeltà, continuano le organizzazioni, che però proseguiranno gli altri progetti in Grecia. Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr:

R. – Il contesto è quello di un’implementazione prematura, a nostro modo di vedere, dell’accordo Europa-Turchia, accordo del quale non siamo assolutamente parte. Noi non prenderemo parte né ai rimpatri di massa, né agli aspetti che riguardano la detenzione. Da qui, la decisione di interrompere le nostre attività nel centro di Moria, che era uno dei cosiddetti “hotspot”, ossia un centro di identificazione dove però le persone potevano muoversi liberamente. In particolare abbiamo interrotto, riconsegnandola nelle mani del governo greco, quella azione che avevamo iniziato l’estate scorsa con dei pullman che accompagnavano le persone, i rifugiati che arrivavano sulle spiagge, lungo i 70 km che li separavano dal centro di Moria. Essendo questo ora un centro di detenzione di massa, sarebbe contrario ai nostri principi e al nostro mandato operare al suo interno. E questo è stato il motivo per cui abbiamo deciso di uscire dal centro. Questo non significa che abbiamo abbandonato l’isola: noi siamo sull’isola e monitoriamo gli arrivi, forniamo un servizio di "counseling" legale a tutti i rifugiati che arrivano e non solo, siamo anche lì per identificare i casi più urgenti e per contribuire eventualmente al loro trasporto con dei piccoli minivan nei punti in cui possano essere curati. Perché sulle spiagge arrivano moltissime persone che sono ferite, disabili, o che si trovano in condizioni di salute assolutamente precaria.

D. – Quali sono ora le vostre intenzioni, considerando che l’accordo tra Bruxelles e Ankara resta in piedi?

R. – Noi abbiamo espresso tutte le nostre preoccupazioni rispetto all’accordo, in particolare per il fatto che quest’ultimo preveda sulla carta una serie di garanzie indispensabili per renderlo legale, ma che purtroppo nella realtà non esistono. In Grecia, non esiste un sistema di accoglienza adeguato, né un sistema di asilo che sia all’altezza di esaminare in maniera così celere tutte le richieste, così come previsto dall’accordo stesso, per poter decidere circa la possibilità o meno di rimpatriare un rifugiato verso la Turchia. Queste garanzie non sono in piedi. Detto questo, noi restiamo in Grecia, siamo a disposizione del governo greco per supportarlo nella creazione di un sistema di accoglienza. C’è bisogno di decine di migliaia di posti di accoglienza in Grecia. In questo momento sono stimate a 50 mila le persone in grave bisogno umanitario in quel Paese, dove non esiste un sistema di accoglienza che possa far fronte a questa situazione.








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