2016-03-13 10:30:00

Sud Sudan: oltre il tribalismo e la corruzione per vincere l'orrore


Stupri, sevizie gravissime, condotte anche contro i bambini, oltre 10.500 civili uccisi nel 2015: sono alcune delle informazioni contenute nel rapporto che l’Onu ha reso noto su ciò che sta avvenendo nel Sud Sudan, Paese africano divenuto indipendente nel 2011, dopo 30 anni di guerra contro Khartum e che dal 2013 è tormentato dalla violenza tra le etnie del presidente Salva Kiir e del suo ex vice Riek Machar. Francesca Sabatinelli ha intervistato Anna Bono, docente di Storia e istituzioni dell'Africa all'Università di Torino:

R. – Quello che ci racconta questo Rapporto è che la situazione in Sud Sudan è completamente sfuggita di mano e, come dicono spesso, in particolare, le autorità religiose, se anche domani il conflitto finisse, ci vorrebbero se non generazioni sicuramente anni per ricomporre la popolazione di un Paese che, da ormai tre anni, sta vivendo una tragedia senza limite, che colpisce indiscriminatamente bambini, donne, uomini.

D. – E’ chiaro che ogni conflitto ha le sue atrocità in tutte le parti del mondo, però questi aspetti di crudeltà così forti, questi stupri come salario, bambini dati alle fiamme. Questa componente così crudele, nella popolazione del Sud Sudan, da dove arriva?

R. – Mi preme evidenziare due fattori che possono contribuire ad una situazione così drammatica. Il primo è il tribalismo, che spiega tante cose e che rappresenta una delle piaghe non soltanto del Sud Sudan ma di tutta l’Africa. Tribalismo che vuol dire non soltanto una divisione etnica, una divisione della società in etnie, ma vuol dire anche rapporti da decenni, e da secoli in certi casi, basati sulla reciproca ostilità e diffidenza, con l’aggravante di risorse limitate che inducono le comunità ad essere in conflitto fra di loro. Poi c’è da mettere in conto la storia del Sud Sudan, che dal 2011 è indipendente, ma che è diventato indipendente staccandosi dal resto del Paese dopo decenni di guerra civile che è stata devastante e che ha avuto conseguenze spaventose su tutta la popolazione. Bisogna pensare ad un popolazione giovane: metà degli abitanti del Sud Sudan ha tra i 15 e i 54 anni quindi, se andiamo indietro nel tempo, parliamo di bambini che sono vissuti nel terrore, nella disperazione, che sono stati separati dai genitori, che hanno visto morire, che hanno subito violenze, che hanno combattuto, perché in Sud Sudan, come in altri Stati africani, il reclutamento di bambini soldato è la norma. Oggi si fanno i conti anche con questa situazione: è gente cresciuta nella guerra e peggio ancora.

D. - Dal 2013 c’è questo sanguinoso conflitto interno tra il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Machar, ed è su quello che si è basata la mappa degli orrori delle Nazioni Unite, additando quali principali responsabili proprio i soldati del governo. Un conflitto etnico: è stato definito tante volte in questo modo. Sappiamo però che questo è anche il modo più facile per liquidare le ragioni dei conflitti che ci sono in Africa, quando poi sappiamo che si devono fare i conti anche con le manovre e gli interessi stranieri spesso…

R. – In questo momento il Sud Sudan è vittima, direi, di se stesso. Prima di tutto di una classe politica, di una classe dirigente, che non ha saputo nel 2011, quando il Paese è diventato indipendente, resistere a due tentazioni. La prima è quella della corruzione e cioè trasformare il potere politico in strumento di accesso alle risorse del Paese, per appropriarsene e disporne come se fossero proprietà privata. Le risorse del Paese sono immense, perché, separandosi dal resto del Sudan, il Sud Sudan si è trovato con i due terzi dei giacimenti di petrolio, già attivi tra l’altro. Da sola questa risorsa poteva bastare per far rinascere questo Paese dalle macerie, posto che, appunto, si resistesse alla tentazione di scialare, complice la corruzione e il malgoverno. L’altra tentazione era proprio quella di non assecondare l’aspetto tribale. All’origine dello scontro, nel 2013, c’è stato da un lato, da parte dei dinka, che sono poi la popolazione più numerosa - ma non dei dinka come popolazione, ma dei suoi leader (il presidente Salva Kiir è un dinka, ndr) - un progressivo accaparramento del potere. Le altre etnie, in particolare i nuer (etnia dell’ex vice Machar, ndr),  la seconda popolazione del Paese, hanno visto con crescente malcontento questa situazione, l’accentramento del potere sia a livello governativo, ma anche a amministrativo, e a un certo punto hanno reagito. Tutto è incominciato quando il vice presidente nuer ha dichiarato che alle successive elezioni presidenziali si sarebbe candidato. E’ stato immediatamente destituito e nel giro di poche settimane la situazione è precipitata: l’esercito si è diviso, i nuer da un lato e i dinka dall’altra, sono incominciati gli scontri armati e, nel giro di pochi mesi, la situazione è degenerata estendendosi alla popolazione.








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