2016-03-13 10:30:00

Mons. Zuppi e Guccini ad Auschwitz con i ragazzi di una scuola media


Anche quest’anno, sotto l’Alto Patronato del presidente della Repubblica, è partito da Milano il viaggio per Auschwitz organizzato dal Comitato “In Treno per la Memoria” e Cgil-Cisl-Uil Lombardia. Lo spunto di riflessione scelto per il 2016 era “Il veleno di Auschwitz: restare umani di fronte al male”. A bordo del treno molti studenti e due ospiti d’eccezione: il cantautore Francesco Guccini, che 50 anni fa scrisse il brano “Auschwitz - Canzone del bambino nel vento” in memoria delle vittime dell’Olocausto, e mons. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. Roberta Barbi ha raggiunto telefonicamente il presule in Polonia per farsi raccontare come è nato questo viaggio:

R. – Il viaggio – il pellegrinaggio direi – nasce dall’idea di andare con Guccini, che 50 anni fa ha scritto questa canzone così nota che credo che tutti quelli della mia generazione, e anche della successiva, hanno cantato, imparato; e molti hanno conosciuto Auschwitz proprio per quelle parole, per quella musica. Quando Guccini la scrisse, la generazione era quella dei figli dei sopravvissuti; oggi sono i pronipoti. Dobbiamo sempre ripartire da lì per capire l’Europa, per trovare la risposta a quell’interrogativo sempre inquietante, ma anche così vero: “Ma quando mai l’uomo capirà? La belva umana quando sarà sconfitta?”.

D. – Per lei era la prima volta ad Auschwitz? Che emozione si prova a visitare questi luoghi?

R. – Non era la prima volta, ma è sempre come se fosse la prima volta. È l’emozione di sperimentare l’abisso dell’uomo e di come sia possibile arrivare a una fabbrica di morte. E anche che non è difficile – purtroppo – di fronte a tanti episodi di indifferenza, di violenza, forse non pianificata come la tragica contabilità di morte dei nazisti, ma certamente così distruttiva e dispersiva dell’uomo. Ci fa rientrare un po’ in noi stessi, ci aiuta a comprendere da che parte stare, a capire che ci sono dei sommersi e dei salvati, ci aiuta a scegliere di rifiutarsi di essere complici in tanti modi con una logica di morte.

D. – Siete partiti con una classe di una scuola media: come si può spiegare ai ragazzi una tragedia come Auschwitz e come comunicare nonostante questo la speranza?

R. – Spiegarlo si può molto con la storia, con le storie, per evitare l’anonimato dei numeri. Per questo la canzone di Guccini è bella, perché fa parlare un bambino. I ragazzi si sono preparati ascoltando molto le storie: da quella sempre eloquente e appassionate di Anna Frank, alle descrizioni di alcuni dei sopravvissuti. Come si fa a far vivere la memoria, cioè a capire che non è mai soltanto qualcosa del passato, ma è una domanda del presente? Questo è anche il nostro dovere: aiutare anche a vedere le tante situazioni di vittime, a conoscerle sempre non da spettatori, ma come una domanda diretta. Una delle cose che mi ha sempre colpito della canzone di Guccini è il verso “Quello è mio fratello”. E se partiamo da questo - cioè quell’umanesimo che unisce tutti - per me è profondamente intriso del Vangelo, che aiuta anche ad essere compagni di viaggio per disinquinare questa casa comune anche da tanto inquinamento di violenza e di pregiudizio.

D. – Quali sono le Auschwitz di oggi?

R. – Subito molti hanno pensato, siccome si è parlato di un bambino, ai barconi e a quelle Auschwitz di oggi: quel bambino era Aylan, il bambino siriano. Possiamo dire che, se ad Auschwitz il pregiudizio era l’antisemitismo e l’antigitanismo, spesso il pregiudizio verso gli stranieri o verso chi scappa dalla violenza e dalla guerra, è molto, molto simile.








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