2016-02-23 14:03:00

Burundi. Nkurunziza a Ban Ki-moon: pronto a dialogo


Un accordo per un “dialogo inclusivo” che metta fine a una crisi politica che dura da quasi un anno è stato raggiunto questa mattina a Bujumbura dal presidente del Burundi, Nkurunziza, e dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Il leader africano ha promesso, come segno di buona volontà, di liberare duemila prigionieri, ma ha esortato l’Onu a “convincere il Rwanda a smettere le sue aggressioni contro il Burundi”. Cosa è lecito aspettarsi da questa intesa? Roberta Barbi lo ha chiesto alla prof.ssa Anna Bono, docente di Storia dei Paesi e delle istituzioni africane presso l’Università di Torino:

R. – Molto probabilmente questo significa un’apertura nei confronti dell’opposizione, ma intendendo per opposizione i parlamentari e i soggetti politici che la rappresentano. Potrebbe essere una cattiva notizia, nel senso che, come già successo subito dopo le elezioni che hanno visto Nkurunziza vittorioso a luglio, l’opposizione, che prima aveva stimolato proteste molto vivaci, ha poi accettato in silenzio e di essere inclusa nel governo e quindi, in fin dei conti, ha tradito la popolazione che aveva incoraggiato a protestare nelle strade con grandi disordini e incidenti mortali che hanno turbato tutta la fase pre-elettorale, da aprile fino a luglio.

D. – L’impegno preso con le Nazioni Unite come inciderà sulle problematiche che affliggono il Burundi, come il fronte dei diritti umani, sul quale sappiamo che il Paese è molto indietro?

R. – Questo è da vedere, perché il problema in questo momento è che non soltanto il presidente con un espediente ha potuto ricandidarsi e ha vinto le elezioni in una situazione denunciata apertamente, caratterizzata da brogli e via dicendo. Il problema è che poi, da allora, la situazione del Paese è progressivamente degenerata con sempre più frequenti scontri armati e soprattutto interventi della polizia molto violenti contro l’opposizione popolare. Ed è questa la situazione che in questo momento preoccupa, al punto da aver indotto l’Unione Africana a prendere in considerazione la possibilità di un intervento militare nel Paese: un fatto del tutto eccezionale. La preoccupazione in Burundi è particolarmente forte perché, come il Rwanda, il Burundi ha una storia di conflitti etnici tra i Tutsi e gli Hutu, che sono le due etnie del Paese, che nel corso degli anni, dall’indipendenza a oggi, ha provocato in Burundi centinaia di migliaia di morti. Finora, si è sempre detto che il fattore etnico non c’entra ma in realtà c’entra eccome e soprattutto potrebbe diventare un fattore determinante e a quel punto ci sarebbe il timore di uno scontro civile devastante.

D. – Nei prossimi giorni, arriverà in Burundi una delegazione dell’Unione Africana (Ua) per promuovere il dialogo. Ma molti altri Paesi del continente si trovano nella stessa situazione del Burundi, con un presidente in carica da anni in barba a quanto previsto dalla Costituzione…

R. – È questo il punto critico. L’Unione Africana è arrivata a pensare di inviare delle truppe in Burundi facendosi forte di un articolo della Costituzione dell’Ua che prevede la possibilità di ingerenza negli affari di uno Stato se si verificano violazioni particolarmente gravi, come il rischio di genocidio e gravi violazioni dei diritti umani. Il problema, qui, è che i leader africani, in questa come in altre occasioni, sono poi cauti a prendere decisioni di questo genere che possono ritorcersi contro di loro, proprio perché molti leader africani hanno una gestione del potere e governano in maniera più che discutibile. E molti – è appena successo in Uganda qualche giorno fa – riconquistano il potere, si riaffermano alle elezioni, avendo ottenuto modifiche costituzionali che praticamente consentono oro di rimanere al potere a tempo indeterminato. Qui la domanda potrebbe essere: “Ma, ricandidarsi non vuol dire vincere…”. Però, sappiamo che in molti Stati africani detenere il potere politico significa anche detenere formidabili strumenti per influenzare l’esito del voto, con brogli, intimidazioni e altri mezzi. Ad alcuni va male  – come è successo in Burkina Faso l’anno scorso  – molti invece hanno successo e si ritrovano legittimati, perché hanno usato strumenti democratici per modificare la Costituzione andando al referendum popolare o usando altri mezzi effettivamente democratici, ma che alla fine diventano un’arma nelle loro mani.

D. – Stanotte, nella capitale Bujumbura sono state avvertite una decina di esplosioni che hanno causato anche qualche ferito: come si possono interpretare questi attentati? Ora che c’è un impegno ufficiale del presidente smetteranno, secondo lei?

R. – Io temo di no perché la situazione sostanzialmente non cambia. Un accordo con l’opposizione, se si limita a offrire ai leader politici dell’opposizione cariche, a spartire il potere in sostanza, non è sufficiente, non è democrazia. Anzi, diventa poi di nuovo la copertura per agire senza ritegno contro l’opposizione popolare e contro chi non accetta questa offerta di spartire il potere.








All the contents on this site are copyrighted ©.