2016-02-09 14:32:00

Afghanistan, la mostra “La guerra da dentro” a Radio Vaticana


“La guerra da dentro”. E’ questo il titolo della mostra itinerante sulla guerra in Afghanistan presentata stamani nella sede della nostra emittente. Hanno partecipato alla presentazione padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede e della Radio Vaticana, don Marco Minin, cappellano capo in servizio permamente effettivo del Comando brigata paracadutisti Folgore e il prof. Massimo Baldacci, dell’Università Tor Vergata. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

Bare allineate, un soldato con la testa tra le mani, un militare che tiene in braccio un bambino avvolto in una coperta. Sono alcune delle impressionanti e stimolanti immagini della mostra “La guerra da dentro” sul conflitto in Afghanistan, su un pezzo - come ha detto Papa Francesco - della “terza guerra mondiale a pezzi”. Di fronte a tante laceranti sofferenze - ha affermato padre Federico Lombardi – l’unico sguardo possibile è quello della misericordia:

“Questa meditazione sulla guerra, sul male e sul peccato che sta all’origine anche di questi mali e di queste sofferenze, ci porta in una prospettiva di fede a cercare anche di guardare alla dimensione della misericordia. Dimensione che poi è l’unica vera risposta a questi drammi spaventosi, a questo mistero del male. Già San Giovanni Paolo II parlava della misericordia, da lui approfondita e scoperta come grande mistero di Dio nel tempo della Guerra mondiale e dei totalitarismi del secolo passato. Papa Francesco ha rilanciato questo tema con il Giubileo della Misericordia proprio dicendo: “Adesso, ce n’è bisogno”. Se ci guardiamo attorno, capiamo che il mondo ha bisogno della misericordia di Dio. Dobbiamo fare appello a questo mistero di misericordia, di perdono e di amore, e che poi è l’unica proposta di senso di fronte a quello che le immagini della mostra. E qui inoltre, vicino alla nostra sede, abbiamo i pellegrini che passano verso San Pietro in questo Giubileo a domandare la misericordia del Signore su questo nostro mondo e sulle nostre vite”.

La mostra, fino al 15 febbraio nella sede della Radio Vaticana, sarà poi visitabile fino al 28 febbraio a Roma presso il Ministero della Marina. Altre tappe sono previste in Friuli, in Germania, e in Austria. Scopo dell’esposizione è quello di far riflettere sulle conseguenze delle guerre.

La guerra non lascia indifferenti, lascia segni indelebili. Don Marco Minin, cappellano militare che ha conosciuto vari contesti di guerra, tra cui quello di Herat in Afghanistan:

R. – La prima sensazione all’atterraggio, all’aeroporto, è quella di rendersi conto di trovarsi su un piano totalmente altro: si arriva e già, in qualche maniera, il contesto di guerra ti prende, ti stringe il cuore. Il primo impatto non è quello con la popolazione, per quanto riguarda il cappellano, soprattutto in quei contesti dove all’esterno della base si muovono solo i professionisti. Il cappellano vive la prossimità con le altre vittime della guerra, che sono anche i militari stessi.

D. – Come cambia la guerra il cuore di questi militari?

R. – Proprio perché ne conoscono le gravi conseguenze, i primi che rifiutano la guerra sono proprio i militari. Sono quelli che la sentono dal di dentro. Chi passa attraverso questo tunnel, non rimane più quello di prima. La guerra cambia profondamente, anche se la consapevolezza dei nostri militari è quella di sapere che hanno anche questo grave dovere di interposizione, di soccorso, di aiuto. In qualche modo, come ricordava anche Papa Francesco, l’ingiusto aggressore deve essere fermato.

D. – La figura del cappellano aiuta anche a portare equilibrio all’interno delle menti dei militari…

R. – Certamente. Questo si evince soprattutto all’estero. Il cappellano è una figura cercata, che è chiamata a portare questo equilibrio, a rispondere a certi dubbi morali profondi. E’ interessante anche vedere – chiaramente dalla Radio non si può vedere ma è davanti a noi –  la foto di un militare con le mani appoggiate alla testa, che si sta chiedendo il perché. Questi "perché" vengono posti anche al cappellano militare.

D. – Quali sono le immagini che le sono rimaste, quelle più forti dell’Afghanistan?

R. – Quelle dei nostri militari che hanno aiutato una famiglia a portare in Italia uno dei loro figli, che era stato mutilato da un ordigno esplosivo. Non è stato semplice. Loro sono stati vicini alla famiglia, vicini in maniera concreta, avendo questo bambino bisogno di cure che in Afghanistan non poteva trovare. Questa è stata una delle cose che maggiormente mi ha colpito.

D. – Altre immagini forti sono anche quelle della collaborazione fattiva tra militari e popolazione locale…

R. – Ad esempio anche ad Herat, quella che ho visto è una forte collaborazione da parte dei nostri militari per aiutare le donne afghane ad una presa di consapevolezza della loro dignità e del loro ruolo. Anche questo è un seme che, a mio avviso, porterà frutti nel tempo.

D. – Le immagini della sofferenza sono diventate un po’ l’emblema degli ultimi anni dell’Afghanistan. C’è la consapevolezza nei militari che il loro lavoro porterà a dei frutti e ad una vera pacificazione?

R. – I nostri militari partono davvero portando nel cuore questo sentimento di poter effettivamente essere incisivi, figure che potranno in qualche maniera aiutare l’Afghanistan a risollevarsi.

Le atrocità della guerra si riflettono oggi in un assetto, non solo politico, ancora profondamente instabile. L’Afghanistan resta un Paese frammentato che ha nella produzione dell’oppio uno dei propri pilastri economici. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il prof. Massimo Baldacci, dell’Università Tor Vergata:

R. – La situazione politica afghana è una situazione di frammentarietà, perché l’Afghanistan è ancora regolato da tribù, spesso coinvolte in guerre tribali l’una con l’altra. Spesso, ci sono interessi economici piuttosto che di traffico di armi, di oppio. Quindi, è una situazione molto complessa. A ulteriore prosecuzione della complessità, c’è il fatto che in Afghanistan esiste non il codice di leggi statale, ma il Pashtunwali. Si tratta di un codice tribale che complica notevolmente tutta la problematica esistente. Sono 30 anni che queste popolazioni non conoscono altro che mine, bombe, distruzione di case, di vite… Quindi, le aspettative di una reale pace sono molto forti nella popolazione.

D. – Questa abitudine alla guerra, questa sofferenza decennale che si prolunga, per un popolo come quello afghano che continua a soffrire ancora oggi – nonostante la guerra formalmente sia finita – può comunque portare a sollevare le sorti di questo Paese, come è successo anche nel dopoguerra in altri Stati?

R. – Sicuramente sì, da parte della popolazione. E’ più difficile da parte dei “signori della guerra”, come vengono definiti in Afghanistan. Si tratta di persone che hanno in mano non solo il potentato locale, ma soprattutto la coltivazione del papavero da oppio e, quindi, gran parte della droga a livello mondiale.

D. – Si può ridisegnare questa economia afghana, oppure questi settori legati all’oppio resteranno dei pilastri anche in futuro?

R. – Io penso che rimarranno dei pilastri per un bel numero di anni, perché il 97% del Pil è costituito dal papavero da oppio. Purtroppo, non sono rosee le speranze nell’immediato. Però, lavorando un po’ tutti – sia la comunità internazionale sia le istituzioni interne al Paese – sicuramente qualche cosa migliorerà.








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