2016-01-28 15:30:00

Dureghello: antisemitismo si sconfigge conoscendo gli ebrei


Una testimonianza che parla dell’ orrore della deportazione, ma anche della speranza che nasce dal bisogno di guardare avanti e raccontare ciò che si è vissuto. “Eravamo ebrei. Questa era la nostra colpa” è il libro presentato ieri pomeriggio nella Sala Marconi della nostra emittente, in cui la giornalista Ester Mieli intervista il nonno Alberto Mieli, uno dei pochissimi sopravvissuti al campo di concentramento di Auschwitz. Il servizio di Marina Tomarro:

Una storia dove si parla di tante, troppe lacrime versate, di disperazione per diritti negati, come quello di andare a scuola, quando ad Alberto Mieli, da bambino a causa delle leggi razziali gli fu detto che non poteva più frequentare la classe con i suoi compagni, perché la sua unica colpa era quella di essere ebreo, ma anche lacrime di gioia come quelle quando riuscì finalmente  a tornare vivo a Roma dal terribile campo di Auschwitz e a riabbracciare i suoi fratelli e la madre. Ascoltiamo padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana, che durante la conferenza di presentazione ha indossato la kippah, ha spiegato, in segno di rispetto  e solidarietà:

R - Di fronte alla tragedia, c’è un grande spazio di silenzio, di domanda e di riflessione. Ecco, credo che questo sia anche l’atteggiamento di fondo con cui tutti noi ci reinseriamo nella realtà della memoria, di quello che è successo. E quindi con estremo rispetto e con un atteggiamento profondo ci troviamo di fronte a qualcosa di così terribile, che ha delle dimensioni misteriose; ci interroghiamo profondamente, cercando di capire se troviamo, se possiamo vedere davanti a noi delle luci e delle risposte di fronte a questa assurdità”.   

E padre Lombardi, nella conferenza ha ricordato le visite al campo di concentramento di Auschwitz, sia di Giovanni Paolo II nel 1979, che di Benedetto XVI nel 2006. A questo proposito ha osservato: "Penso che tra non moltissimo tempo anche Papa Francesco interverrà ad Auschwitz". E tra le pagine del libro non scorre solo l’orrore, ma si percepisce soprattutto la solidarietà che si creava subito tra coloro che erano costretti a subire quella terribile prigionia. Ascoltiamo ancora il direttore della Sala Stampa:

R - Un altro aspetto che mi ha colpito tantissimo è la condivisione della compassione. Nel libro cioè ci sono vari punti in cui si vede che lui soffre, perché è ebreo, è stato deportato, ma lì trova anche altre persone, che condividono con lui questa sorte di violenza, di oppressione, di distruzione della dignità umana e si avvicina a loro e condivide con loro questa realtà in un modo assolutamente fraterno, umano, condiviso. Ma la cosa che poi mi affascina di più di questo libro è che la memoria di Alberto, attraverso tutto il suo itinerario fino ad oggi, è una memoria che diventa serena, che diventa in un certo senso capace di ispirare il superamento dell’odio e riconciliazione.

E il dramma della Shoah deve diventare insegnamento per le generazioni future, soprattutto in un momento difficile come questo attuale. Ruth Dureghello, presidente della comunità Ebraica di Roma:

R - Non è tanto la conoscenza degli ebrei morti che permette di affrontare il futuro, ma questo deve passare per la conoscenza dei vivi. Cosa rappresenta l’ebraismo? Chi sono gli ebrei? Qual è stata la loro colpa per poi essere vittime di tanto odio e di tanta discriminazione, anche oggi? Quindi è vero che dobbiamo continuare a trasmettere la memoria della Shoah, ma cerchiamo anche di comprendere che il messaggio deve passare attraverso una conoscenza specifica e superare le barriere di millenari pregiudizi e ataviche remore nei confronti del mondo ebraico".

Testimonianze come quella di Alberto Mieli diventano allora un monito contro ogni discriminazione. Ascoltiamo mons. Marco Gnavi, responsabile per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso per il Vicariato di Roma:

R - Ricordare e farlo attraverso il vissuto dolorosissimo e coraggioso di persone come Alberto Mieli, ci restituisce tutta la verità dell’epifania del male che è stato Auschwitz e la faticosa battaglia del bene, anche nei decenni successivi fino ad oggi, perché quell’orrore fosse un monito per le giovani generazioni. C’è una grandissima lezione di umanità, perché Alberto è rimasto ciò che era: un uomo legato alla sua famiglia e ai suoi affetti, che ha mantenuto dentro di sé tutti questi ricordi per lunghissimi anni, lunghissimi decenni, fino a quando non ha deciso di aprire il cuore alle giovani generazioni, aiutandole a discernere. Ritornare alla memoria della Shoah significa anche avere il coraggio di affrontare il male per ciò che è, quando è solo una scintilla di antisemitismo, per non farsi dominare dalla paura ma vivere il lascito di questa eredità dei sopravvissuti da parte nostra, come cristiani, con la coscienza che il rapporto con i nostri fratelli ebrei è irrinunciabile.








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