In Libia proseguono le trattative dopo che il parlamento di Tobruk ha negato la fiducia al governo di unità nazionale del premier designato al Sarraj. La presentazione della nuova compagine – frutto degli accordi siglati lo scorso mese di dicembre - avverrà nell’arco di una decina di giorni. Ma cosa significa questa bocciatura? Eugenio Bonanata lo ha chiesto a Paolo Sensini, analista internazionale:
R. – Già questo governo di Sarraj non godeva di appoggi generali in Libia; anzi, non godeva proprio di appoggi “tout court”. E quindi era piuttosto prevedibile che sarebbe finita così. Una minoranza davvero risicatissima lo sostiene: è una figura nominata da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, e, buon ultima l’Italia. Quindi è un uomo che serve e che fa agio soprattutto ai nostri interessi, ben poco a quelli libici.
D. – Tra i punti più controversi c’è il controllo delle Forze armate: cosa ci possiamo aspettare al riguardo?
R. – Sembrava prevedibile che fosse Khalif Haftar a Tobruk a diventare ministro della Difesa, che di fatto è colui che controlla le forze più consistenti. Non essendo avvenuto questo, è ovvio che c’è stata una levata di scudi. Del resto, qual è il motivo per cui Sarraj è stato nominato? Perché chieda un intervento militare, ed è un’operazione che sia il ministro degli Esteri italiano, Gentiloni, sia Kerry, avevano già paventato a più riprese. Ed è una prospettiva che non alletta la gran parte dei libici, e che rischia soprattutto di essere un’altra operazione di impantanamento incredibile, come quella che ha causato il caos libico nel 2011.
D. – Quindi sullo sfondo c’è una mancanza di sintonia tra gli interessi della comunità internazionale e delle fazioni libiche?
R. – Certamente. Avendo tolto Gheddafi come leader si è aperto un ginepraio che in parte era uno scenario prevedibilissimo già all’epoca. Adesso con questa operazione di Sarraj si è tentato di creare un’opportunità per far rientrare truppe - truppe militari Nato o di alcuni Paesi Nato - ma ovviamente questa non è una prospettiva che alletta i libici. E, tra l’altro, neppure dal nostro punto di vista credo sia un’opportunità, perché probabilmente si sottovaluta qual è la situazione reale lì. Sarebbe un impantanamento davvero incredibile, tra l’altro a poche centinaia di km dal confine italiano.
D. – C’è il pericolo di una sempre maggiore saldatura tra il sedicente Stato Islamico e Al-Qaeda nel Paese?
R. – Sin dall’inizio, da quando sono scoppiate le rivolte nel febbraio del 2011, Gheddafi - chi ha seguito un po’ quella vicenda lo ricorda - parlava già di gruppi e truppe di Al-Qaeda, quelli che però noi in Occidente nominavamo come sinceri ribelli democratici. Quelli che erano lì allora sono quelli di oggi e in più si sono moltiplicati. Ovviamente, in una situazione di caos di questo genere sono proliferate questo tipo di truppe che sono il “collante” nello sfascio generale. E quindi questa è un’altra delle colpevoli responsabilità che portano coloro che hanno fatto questo tipo di intervento, e che ancora non hanno risposto di questa gravissima situazione che hanno creato. Ricordo solamente le e-mail che sono state pubblicate tra Sarkozy e la Clinton, in cui l’allora Presidente francese le diceva sostanzialmente che volevano entrare il Libia per prendere direttamente le risorse che ai francesi interessavano. E soprattutto perché la creazione di un dinaro d’oro – spinta da parte di Gheddafi – rischiava di creare problemi grandissimi al franco Cfa, che è la moneta di scambio per tutto il Sahel. Quindi interessi molto corposi mascherati dietro foglie di fico umanitarie, che hanno creato questo caos e che oggi rischiano di aggravarlo nuovamente.
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