Si concluderà il 14 gennaio prossimo l’annuale visita in Terra Santa e il 16.mo incontro dell’Holy Land Coordination (Hlc), l’organismo che raggruppa vescovi e rappresentanti delle Conferenze episcopali di Stati Uniti, Europa e Canada, del Consiglio delle Conferenze episcopali europee e della Commissione degli episcopati della Comunità europea. La delegazione si trova ora in Giordania, ultima tappa di un viaggio che nell’Anno Santo della Misericordia ha toccato anche Gaza e Betlemme. Roberta Barbi ha raggiunto telefonicamente il presule italiano del gruppo, il vescovo di Grosseto, mons. Rodolfo Cetoloni:
R. – Questa mattina siamo ad al-Fuheis, in una parrocchia vicino ad Amman, una parrocchia tutta cristiana. Poco fa, abbiamo incontrato proprio il parroco del Patriarcato, il quale ci ha parlato della grande accoglienza fatta dalla comunità cristiana a 160 famiglie di profughi iracheni, che qui si sono pienamente inseriti – sia nella comunità cattolica latina come nella comunità greco-ortodossa – bene accolti nelle scuole e nelle famiglie. Ieri, siamo stati invece in un centro della Caritas dove, nei container, sono state accolte in un primo momento queste famiglie di profughi iracheni, che adesso hanno trovato invece alloggio. Cosa abbiamo visto? Un grande lavoro della Caritas certamente, per l’accoglienza, ma anche per creare qui la possibilità, specialmente per i ragazzi, di poter accedere alle scuole.
D. – Domenica scorsa, siete stati a Beit Jala vicino alla colonia israeliana di Gilo, dove c’è una disputa territoriale per la costruzione di un muro…
R. – Questa purtroppo è una situazione che meraviglia chi viene per la prima volta e che fa tanto male a chi torna, come me che torno spesso. Non sta cambiando nulla e si vede come questa politica dell’occupazione, questa politica degli insediamenti, questa politica della sicurezza – che richiede continuamente l’ampliamento della costruzione di questo muro – stia arrivando a toccare anche le realtà più piccole. Dal contatto con la famiglia che abbiamo incontrato nella zona di Cremisan, dove c’è una disputa ormai lunga anche all’interno della Suprema Corte d’Israele, ancora non è chiaro cosa dovranno fare, ma già hanno sradicato gli ulivi, già hanno iniziato a fare una strada militare. Questo ti dà proprio il senso della impossibilità di fare qualcosa. C’è stata una bella testimonianza da parte di un giovane e di altri che una volta alla settimana si ritrovano lì a pregare: quando è stata bloccata in un primo momento, questa decisione di costruire il muro, l’hanno vista come un miracolo nella primavera scorsa.
D. – Il vostro viaggio è iniziato a Gaza, dove avete incontrato 200 fedeli. Come vivono i cristiani laggiù?
R. – Io sono arrivato solo da Betlemme, perché era la festa dell’Epifania e non potevo lasciare la diocesi. Sono rimasti molto colpiti, ma c’è anche questo senso di grande distruzione è qualcosa che sta andando più in basso, nonostante gli sforzi, nonostante il desiderio. È stato un viaggio in cui siamo stati provocati maggiormente a trovare veri motivi di speranza, perché - diceva il patriarca Michel Sabbah – noi dobbiamo essere persone di speranza, in una situazione dove non c’è speranza.
D. – Sappiamo che lei ha un forte legame con la Terra Santa, inoltre era già stato membro di questa delegazione nel Duemila. Cos’è cambiato, secondo la sua esperienza, in questi anni?
R. – Si sono aggravate le situazioni e si sono aggravate anche per quello che è accaduto intorno, in Siria e in Iraq. C’è stata una perdita di fiducia e anche le relazioni interreligiose, credo, sono state messe ancor più alla prova. Ho trovato più stanchezza degli altri anni, in questo senso. Spesso nella gente si sente una perdita di fiducia: quello che è accaduto ai cristiani minacciati in Iraq, dove hanno perso tutto, e sono stati minacciati per la loro fede. Questo ha fatto perdere, almeno in tanta gente, la fiducia in una convivenza, proprio loro che prima erano nella convivenza. Queste prove ultime hanno ferito questa fiducia.
D. – Queste visite annuali servono, oltre che a raccontare qual è la situazione, anche a stabilire gli aiuti da portare. Qual è la prima cosa che farà, tornando in Italia?
R. – Proprio la prossima settimana ci incontreremo in Toscana con alcune persone. Vorremmo riproporre quello che accadde all’inizio della seconda Intifada: un impegno nei pellegrinaggi, a venire, perché qua non c’è pericolo. Si deve venire in pellegrinaggio, ma si deve venire anche per essere coscienti di quello che sta accadendo. Gli occhi di chi viene, al di fuori, sono molto importanti sia per incontrare gli occhi di chi rimane qui, che non si senta abbandonato, ma anche per far conoscere al mondo quello che sta accadendo qui. La situazione dei cristiani, in Palestina, in Israele e in Giordania, ha perso un po’ l’attenzione e ora il fuoco è più sulla Siria, sull’Iraq e sulla Libia. Invece, bisogna portarla qui l’attenzione, perché non ci si trovi a dire: non abbiamo fatto quello che potevamo fare per star loro vicini. Sono necessari gli aiuti, l’organizzazione, ma credo che sia anche necessaria una vicinanza umana più diretta. È questa che poi sostiene, al di là dei progetti che ci vogliono e i programmi. Io mi impegnerò molto nella ripresa dei pellegrinaggi in queste terre.
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