2015-12-28 14:51:00

I bambini soldato, "martiri innocenti" dei nuovi Erode


Istruzioni su come distruggere una postazione nemica invece che un libro di scuola. Un fucile mitragliatore e dosi di droga al posto di un quaderno e una merenda. Decine di migliaia di minorenni – maschi ma anche sempre più femmine – sono assorbiti loro malgrado nel girone infernale dei bambini-soldato in molte zone del mondo. Anche Papa Francesco ha pregato per loro all’ultimo messaggio Urbi et Orbi di Natale. Questi giovanissimi possono essere annoverati tra quei Martiri Innocenti che la Chiesa ricorda nella liturgia odierna. Alessandro De Carolis ne ha parlato con Marco Rotelli, segretario generale di Intersos:

R. – Il problema è che il fenomeno effettivamente sta addirittura aumentando: si stima normalmente che almeno 250 mila ragazzini siano reclutati nei conflitti. È un fenomeno globale: africano, mediorientale, asiatico, ma anche centroamericano... E non sono solamente i maschi armati di AK-47 o quant’altro, ma anche le ragazze – le loro sorelline – molto spesso reclutate per sfruttamento sessuale, per ragioni di approvvigionamento,  alimenti, cucina ecc.

D. – Tra chi non smette di combattere il fenomeno dei bambini e delle bambine soldato siete voi di Intersos. In che modo agite?

R. – Su due livelli: quello di prevenzione e quello di reintegrazione, reinserimento. La prevenzione prevede per esempio attività che evitino il reclutamento spontaneo, l’avvicinamento dei ragazzini a persone o gruppi che potrebbero portarli nelle zone di combattimento. Formazione professionale, per esempio: in Somalia, centri di formazione hanno risposto e arginato un po’ la tendenza di alcune famiglie e alcuni ragazzini ad andare verso questi gruppi, perché un mini-reddito e una forma di sussistenza arrivava dalle nuove capacità. Quando si riesce a rientrare in contatto con questi bambini – o perché cacciati dai gruppi o perché presi addirittura prigionieri dagli eserciti che combattono contro i gruppi di opposizione – la fase di reinserimento nella società è estremamente difficile. Queste sono persone che hanno subito traumi, quasi “lavaggi” del cervello, e le famiglie stesse hanno enormi problemi a riprendere le persone che hanno fatto oggettivamente le cose peggiori che possa fare un uomo. Figuriamoci un bambino che effetto traumatico sulla psiche possa avere…

D. – Negli anni sono state varate normative sempre più stringenti sul fenomeno dei bambini soldato, ma si tratta spesso di normative inascoltate. Si muove qualcosa di più in questo campo?

R. – Diciamo che c’è il tentativo di rendere sempre più efficace soprattutto la Risoluzione delle Nazioni Unite n. 1612, che cerca di arginare questo fenomeno. La risoluzione viene integrata in quasi tutte le attività, soprattutto umanitarie, ma anche di sviluppo, in cui ci deve essere un’attenzione particolare a integrare elementi di contrasto di questo fenomeno in ogni attività. Da un punto di vista legale, ci sono poi le conseguenze, i capi legali di imputazione veri e propri che vengono addossati ai colpevoli in sedi di processi internazionali o dai governi stessi.

D. – C’è una storia anche positiva, pur nel dramma, che l’ha colpita di recente, tra le tante?

R. – Sì, per fortuna ci sono anche delle storie positive. Io in questo momento parlo dal Senegal, da Dakar, quindi molto vicino al Mali. Qualche tempo fa gruppi di ragazzini diciamo “liberati” dalle milizie radicali islamiche del nord, che combattevano contro il governo di Bamako nella capitale, sono stati tenuti in una sorta di isolamento dalla società proprio per evitare i rischi di una rappresaglia da parte della società contro ragazzini, che avevano perpetrato delle violenze e degli atti di guerra veri e propri. Questi sono stati tenuti quasi di nascosto all’interno di centri di recupero in Mali e, pian piano, con molta calma, hanno recuperato una loro normalità e anche una capacità delle famiglie e della società di riaccoglierli. Una cosa molto simile è successa in Congo: in questo caso erano ragazzine sottratte alla famigerata milizia del “Lord’s Resistance Army”, che dopo anni sono state abbandonate dalla milizia stessa perché probabilmente non più necessarie o in stato di salute troppo precario per essere “utili” alla guerra. E anche lì, pur con molta difficoltà, si è riusciti a rimetterle addirittura nelle loro stesse famiglie, nei villaggi. All’inizio erano assolutamente stigmatizzate: le famiglie stesse nei confronti della società, ma anche le famiglie avevano grossi problemi e paura di quello che queste persone potevano fare. Oggi, finalmente, noi stiamo festeggiando il successo di queste ragazze che sono rientrate nella loro comunità. Però, questo purtroppo non è il destino di centinaia di migliaia di ragazzini.








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