2015-12-17 15:03:00

Istruzione ai bimbi rifugiati: iniziativa dell'Europarlamento


Sono almeno 10 milioni i bambini rifugiati che non ricevono istruzione. Molti di loro si trovano nei campi profughi del Libano, della Giordania, della Turchia e alcuni nei vari Paesi europei. Per loro il Parlamento Europeo chiede risorse e personale qualificato perché non perdano il diritto alla formazione e perché l'accesso all'educazione è uno strumento potente anche per sottrarli a violenze e radicalizzazione. Dell’iniziativa proposta ci parla, nell’intervista di Fausta Speranza, la relatrice, l’eurodeputata Silvia Costa, presidente della Commissione Cultura:  

 R. – È una campagna che sta già avendo un grande riscontro. Il diritto all’accesso all’istruzione e all’assistenza educativa dei tanti bambini, ragazzi e minori che si trovano nei campi profughi e in condizioni di emergenza, è un diritto che va garantito. Sappiamo che quando si può avere un servizio educativo in una condizione di questo tipo, ciò diventa rassicurante psicologicamente per i bambini e per le loro famiglie, dà un senso di futuro, una visione del futuro, e soprattutto previene forme sia di violenza o di sfruttamento, ma anche di radicalizzazione dei ragazzi nei campi profughi. Pensiamo ai ragazzi che sono da anni nei campi profughi, e non solo a quelli che ci sono da poco. Noi ad oggi abbiamo questa situazione: soltanto meno del 2% di tutti gli aiuti umanitari, a livello mondiale ma anche europeo, vanno a garantire questo diritto. Oggi, per esempio, ci sono delle migliaia e migliaia di bambini che si trovano in  Giordania, Libano, Turchia, direi che almeno 400.000 di loro non hanno un servizio educativo, nonostante gli sforzi anche di tanti maestri, anche loro profughi, nonostante le Ong, mancano le risorse. Questa campagna si chiama “Educa: go for four”, “vai al quattro”: cioè si vuole arrivare dal 2 al 4%. Ovvero, oggi noi abbiamo 3.2 miliardi circa di aiuti umanitari dall’Unione Europea: vogliamo che sia raddoppiata la quota che oggi è solo del 2% delle risorse. Un passo avanti lo abbiamo già fatto: abbiamo ottenuto dal Commissario per gli aiuti umanitari, sensibile a questo, un aumento per il 2016 di 29 milioni, ma noi vogliamo andare oltre: entro il 2018 ci siamo posti l’obiettivo del 4%.

D. – Dunque, una risposta dell’Europa che non è soltanto l’emergenza vitale sulla spiaggia…

R. – Certo. Noi abbiamo assistito a troppi drammi e abbiamo visto troppe morti, ma sappiamo che c’è un modo anche di sopravvivere ma senza vivere, che è quello di non essere presi in carico come persone, come bambini che hanno diritto anche a vivere il momento dell’educazione, del gioco, e anche della capacità di immaginare un futuro dopo il loro periodo di vita difficile e in emergenza. Noi su questo vogliamo investire, anche perché le esperienze di questi ultimi anni ci dicono che la radicalizzazione di molti giovani avviene già nei campi profughi, perché spesso questi diventano vittime di predicatori di violenza e di morte.

D. – Si parla troppo spesso di “emergenza” mentre gli esperti di flussi migratori parlano di “situazione strutturale” che durerà 15-20 anni. Dunque, pianificare interventi come questo significa proprio rendersi conto che non dobbiamo parlare di sola emergenza …

R. – E’ così. Noi parliamo di persone, che sono alcune temporaneamente “displaced” - cioè profughi fuori dai loro Paesi e si spera che possano tornare; in altri casi si tratta di persone che non riescono a vedere più un futuro nel loro Paese; persone, bambini e famiglie che sono da anni e anni nei campi profughi. E poi ci sono persone che sono in condizioni di emergenza. Per esempio, ci sono alcuni arrivati nelle nostre città europee, e noi crediamo che dobbiamo assolutamente garantirgli degli standard di accoglienza: prima di tutto la mediazione linguistica, il sostegno psicologico e l’accesso alle scuole. Anche per questo servono delle risorse, e anche delle risorse umane. Questo credo che sia capacità di prevenire. Questa non è soltanto solidarietà, che è  dovuta, cioè non è soltanto un diritto di qualcuno, ma se vogliamo è un dovere e anche in fondo una parte della famosa “politica della sicurezza”. Abbiamo visto anche con i Foreign Fighters che la prima sicurezza è avere delle pratiche inclusive, adeguate e aperte.








All the contents on this site are copyrighted ©.