2015-11-23 12:59:00

Il vescovo di Lira: Uganda attende dal Papa un raggio di luce


L’Uganda sarà la seconda tappa del viaggio del Papa in Africa. Proveniente dal Kenya, il Pontefice arriverà ad Entebbe nel pomeriggio di venerdì 27 novembre. Lascerà il Paese alla volta del Centrafrica domenica 30 novembre. Sulle attese in Uganda, ascoltiamo mons. Giuseppe Franzelli, vescovo della diocesi ugandese di Lira, al microfono di Sergio Centofanti:

R. – Le attese sono tante, perché chiaramente i cattolici, ma anche tutta la popolazione ugandese, è piena di entusiasmo all’idea che Papa Francesco venga a trovarci. Tra l’altro, siamo anche un pochino orgogliosi – e penso che il Signore ci perdonerà – perché l’Uganda a questo punto risulta essere l’unico Paese africano che ha avuto la visita di tre Papi: Paolo VI nel ’69, Giovanni Paolo II nel ’93 ed ora Papa Francesco. Questa aspettativa è grande, tanto che c’è tantissima gente che vorrebbe venire a Kampala per incontrarlo, cosa che evidentemente non sarà possibile a tutti. Ma questa aspettativa si basa sul fatto che la gente ha capito che è Pietro che, secondo la missione che gli ha dato Gesù, viene a visitare, a confermare nella fede i suoi fratelli. Il tema della visita del Papa è la citazione dagli Atti degli Apostoli “Voi sarete miei testimoni”, ed è un tema che si ricollega direttamente all’evento che viene celebrato, cioè il 50.mo anniversario della canonizzazione dei 22 martiri di Uganda. Allora sono proprio i martiri – “martiri” significa “testimoni” – che invitano a riflettere noi cattolici, o comunque noi cristiani, sulla qualità e la forza della nostra fede oggi, in Uganda, per vedere se anche noi come loro - in maggioranza erano giovani – siamo capaci di essere fermi nella nostra fede, senza compromessi, senza paure. E’ una sfida grande e per questo noi ci aspettiamo - e preghiamo – che la visita del Papa porti un rafforzamento, un rinnovamento di cui la Chiesa cattolica in Uganda, e anche tutto il Paese, hanno senz’altro bisogno.

D. – Che Paese trova Papa Francesco?

R. – Un Paese che il 9 ottobre scorso ha celebrato il 53.mo anniversario della sua indipendenza. 53 anni in cui tante cose belle sono successe, di cui abbiamo ringraziato il Signore: lo sviluppo che c’è stato e così via. Ma anche 53 anni che hanno visto un Paese che a più riprese è stato insanguinato da rivolte interne, colpi di Stato e così via, che in genere hanno visto sempre chi andava al potere vendicarsi su chi c’era prima, dividendo quindi il Paese. E’, dunque, un Paese ferito. Per quanto riguarda il Nord, la parte in cui opero come vescovo di Lira, siamo appena usciti, da pochi anni, da oltre 20 anni di ribellione del Lord’s Resistance Army di Joseph Kony, che hanno distrutto tutto ciò che era possibile e hanno diviso le famiglie. E allora c’è un grande bisogno di una ricostruzione che non sia solo materiale, di edifici distrutti, di strade che non ci sono più, ma di una ricostruzione – direi – della fibra morale della popolazione e anche dei valori cristiani che sono stati dimenticati oppure contraddetti da queste violenze, mutilazioni, rapimenti e così via, e dal desiderio che c’è di vendicarsi; o comunque di recuperare da questo trauma, perché almeno la nostra popolazione nel Nord è una popolazione traumatizzata da questi eventi e ci vorranno un paio di generazioni, penso, per venirne fuori. Ma non è che nel resto del Paese non ci siano problemi. Ci sono due visioni dal punto di vista etnico e politico. E’ una democrazia abbastanza fragile, dove per anni c’è stato il partito unico e dove poi è entrato il multipartitismo, con una tendenza a guardare chi è di un partito, di un gruppo diverso, non come fratello e sorella della stessa famiglia che ha idee diverse, ma come nemico. Questo sta venendo fuori ancora di più adesso, perché siamo in un periodo preelettorale, e nel febbraio dell’anno prossimo ci saranno le elezioni. Noi già avvertiamo come l’atmosfera si stia riscaldando. La venuta, quindi, di Papa Francesco speriamo, e preghiamo, che sia un po’ un invito alla riconciliazione, al rispetto reciproco, al fatto che siamo tutti figli dello stesso Padre. E questo anche al livello – direi – ecumenico, perché non è solo per noi cattolici. I martiri ugandesi sono 22 martiri che noi veneriamo - noi cattolici – e che sono stati canonizzati. Ci sono anche due martiri catechisti, giovani catechisti del Nord – Jildo e Daudi – che sono stati martirizzati e sono stati dichiarati Beati. Ma assieme ai 22 martiri cattolici, ci sono stati altri 22, 23 anglicani, che sono stati pure bruciati, ammazzati insieme ai nostri. Perché? Proprio perché cristiani. Allora ecco che la visita del Papa, con anche la sosta al sito anglicano del martirio, è un invito, è un richiamo a guardare più quello che ci unisce che quello che ci divide.

D. – Può descriverci com’è la Chiesa ugandese?

R. – E’ una Chiesa che, tra l’altro, è proprio il frutto del sangue dei martiri. Il sangue dei martiri è proprio seme dei cristiani. Adesso su 34 milioni di abitanti abbiamo circa 14, 15 milioni di cattolici; poi ci sono gli anglicani e altre denominazioni religiose, sempre cristiane, oltre ad un gruppo di musulmani che però è piuttosto in minoranza, specialmente in certe regioni del Paese; e poi associazioni, movimenti laici e così via, che testimoniano la vitalità di questa Chiesa. Questo è l’aspetto positivo. Le sfide sono nella coesistenza della fede cristiana con tradizioni culturali soggiacenti che spesso vengono fuori nei momenti di crisi. Per esempio, anche andando a Messa la domenica, se il martedì il bambino si ammala, spesso, in molti villaggi, si va dallo stregone oppure si fanno pratiche che non sono in armonia con il credo cristiano. C’è poi adesso la grossa sfida della corruzione, che ormai ha penetrato purtroppo la vita sociale, economica e politica del Paese a livelli veramente spaventosi. Ma il male più grosso sembra essere il fatto che molti ormai lo ritengano un male inevitabile, in fondo una cosa normale. C’è bisogno, quindi, di un risveglio, di un recupero di una vita di fede più autentica, che si veda nelle opere, nelle pratiche esterne e non solo nella preghiera. Per cui ci sono luci ed ombre, come dappertutto penso, nella vita della Chiesa ugandese. E noi speriamo e preghiamo che la venuta di Papa Francesco porti un raggio di luce e un incoraggiamento a far crescere quello che è positivo e a darci il coraggio di tagliare con quello che invece impedisce una vita cristiana autentica.








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