Lungo e intenso discorso di Papa Francesco nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze ai partecipanti al V Convegno nazionale della Chiesa italiana che si svolge sul tema “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Pubblichiamo di seguito il testo con le aggiunte secondo una nostra trascrizione:
Dio ha mandato il Figlio non per condannare ma per salvare
Nella cupola di questa bellissima Cattedrale è rappresentato
il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce. L’iscrizione che si legge
all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto,
mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso
sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli
del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché
Lui ha «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1
Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo
per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).
Gesù, con il suo volto misericordioso, è il nostro umanesimo
Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre
ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono.
Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo
in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù
morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le
fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del
volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare
da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda:
«Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
Se non ci abbassiamo non vediamo il volto umiliato di Gesù
Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto
il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato
e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri
fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto
ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come diceva
sant’Anselmo, o il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di
sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non
vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi
non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte,
raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.
Tre tratti dell'umanesimo cristiano
Non voglio qui disegnare in astratto un «nuovo umanesimo», una
certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano
che è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo,
ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere
decisioni. Quali sono questi sentimenti? Vorrei
oggi presentarvene almeno tre.
L'umiltà
Il primo sentimento è l’umiltà. «Ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti l’Apostolo
parla del fatto che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6). Qui c’è un
messaggio preciso. L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”,
la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire
la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra. La gloria di Dio che sfolgora
nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende
sempre.
Disinteresse
Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo
cristiano è il disinteresse. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede ancora
san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci
sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale.
Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha
più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno
una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle
abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).
Fede è rivoluzionaria
Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo
un posto migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene
dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per
essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità
di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda.
La beatitudine
Un ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della
beatitudine. Il
cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore
ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità
più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo
quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare
con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto
di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del
condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano
di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care;
e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza
e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile.
Avere il cuore aperto
Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con
una benedizione e terminano con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo
un sentiero di grandezza possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto
tutto il resto viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito
Santo, sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere «beati»,
per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore
aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento,
i cui frutti si raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate
e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9)!
Non essere ossessionati dal potere
Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo
cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa
anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio
di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”,
anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale
della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il
senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti
di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe
triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette
di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.
Meglio una Chiesa ferita per essere uscita per le strade che una Chiesa
malata
Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà,
disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel
mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta
e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca
per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e
la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata
di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti»
(Evangelii gaudium, 49).
La tentazione pelagiana
Però, sappiamo che le tentazioni esistono, le tentazioni
da affrontare sono tante. Ve ne presento almeno due. Non vi spaventate! Questo non
sarà un elenco di tentazioni come quelle 15 che ho detto alla Curia! La prima di esse
è quella pelagiana. Essa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con
l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture,
nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta
pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al
pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In
questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti
ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi
e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte, anche è inutile cercare soluzioni
nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità
di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di
generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto
non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana
si chiama Gesù Cristo.
La Chiesa è "semper reformanda"
La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda –
è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare
le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre
dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività.
Una Chiesa libera e aperta
La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio
potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi
esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto
e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta
alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. Mai in difensiva
per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma
il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli;
mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).
La tentazione dello gnosticismo
Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello
gnosticismo. Essa porta a confidare nel ragionamento
logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino
dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa
unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che
si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane
chiuso nell’immanenza della sua propria ragione e dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94). Lo gnosticismo non può trascendere.
No agli intimismi
La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque
forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in
pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere
nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile
il suo dinamismo.
Don Camillo e Peppone
La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio
possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco
d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati
come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi
la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di
sé don Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani
uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro».
Vicinanza alla gente e preghiera, vicinanza alla gente e preghiera!, sono la chiave
per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo
contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna
parte.
Popolo e pastori insieme
Ma allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte
voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa? Spetta
a voi decidere, eh!: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad
alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce
Homo che abbiamo sulle nostre teste. Fermiamoci
a contemplare la scena. Torniamo al Gesù che qui è rappresentato come Giudice universale.
Che cosa accadrà quando «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli
con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31)? Che cosa ci dice Gesù?
Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare
Possiamo immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre
teste dire a ciascuno di noi e alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire:
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto
sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36). Ma potrebbe anche dire: «Via, lontano da me, maledetti,
nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame
e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero
e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi
avete visitato» (Mt 25,41-43). Mi viene in mente il prete che ha accolto questo giovanissimo prete
che ha dato testimonianza.
Gesù mangia e beve con i peccatori
Le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette
sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità.
Sono poche parole, semplici, ma pratiche. Due pilastri: le beatitudini e le
parole del giudizio finale. Che il Signore ci dia
la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del
volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo
mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo
con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo
la sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto
il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia
e semplicità di cuore» (At 2,46-47).
I vescovi siano pastori
Ai vescovi chiedo di essere pastori, non di più, pastori:
sia questa la vostra gioia: 'Sono pastore'. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi.
Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta
e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi.
Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha
pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua
gente.
Non predicatori di complesse dottrine, puntare all'essenziale
Ma che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere
sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine,
ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla
di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio
ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia preoccupazione
pastorale nella esortazione apostolica Evangelii
gaudium (cfr nn. 111-134).
Inclusione sociale dei poveri
A tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato
in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato
nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia
sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune.
Opzione per i poveri
L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata
da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42) ci ricordava
San Giovanni Paolo II. Questa opzione «è implicita nella fede cristologica in quel
Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà» (Benedetto
XVI, Discorso alla Sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano
e dei Caraibi) diceva Papa Benedetto. I poveri
conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per esperienza conoscono il Cristo
sofferente. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra
voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli
e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro»
(Evangelii gaudium, 198).
Chiesa italiana sia protetta da ogni surrogato di potere
Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato
di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene
ed è ricca di speranza.
La Chiesa riconosce i suoi figli abbandonati
Siamo qui a Firenze, città della bellezza. Quanta
bellezza in questa città è stata messa a servizio della carità! Penso allo Spedale degli Innocenti, ad esempio. Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il
servizio di bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano,
insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando
l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco, dobbiamo
immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra
metà. Perché la Chiesa madre, la Chiesa madre in Italia ha l’altra metà della medaglia
di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati, e
questo da sempre è una delle vostre virtù perché ben sapete che il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti,
ma per tutti.
Capacità di dialogo e incontro, ma non è negoziare
Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità
di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta”
della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti.
Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori
per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si
dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo
ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in
un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii
gaudium, 227).
Umanesimo autentico è amore che accoglie e salva
Ma dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo
autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di
natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda
la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società
civile. Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano
del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona,
salva.
Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità
La società italiana si costruisce quando le sue diverse
ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella
accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica,
quella politica, quella dei media... La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro,
di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo
e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura
del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la
teologia dal trasformarsi in ideologia.
Necessario esodo per autentico dialogo
Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare
non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire
insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che
hanno buona volontà. E senza paura di compiere
l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere
le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni
che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze: è fratello.
I credenti sono cittadini
Ma la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara
davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una
delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune.
I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza
si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione
non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da
mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche
o religiose.
Ai giovani: mettetevi al lavoro per una Italia migliore
Faccio appello soprattutto «a voi, giovani, perché
siete forti», come diceva l’Apostolo Giovanni (1
Gv 1,14). giovani, superate l’apatia. Che nessuno
disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire
(cfr 1 Tm
4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una
Italia migliore. Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi
nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il
cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore
di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere
i cambiamenti e le trasformazioni.
Non costruire muri ma ospedali da campo
Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento
quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide
nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo
richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo
e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti
quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi
è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite
mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.
***
Una Chiesa col volto di mamma che comprende e innova con libertà
Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più
vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta
col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa
Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati
a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce
tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro,
ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo,
anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura.
Approfondire Evangelii gaudium
Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi
questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in
ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione,
in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium,
per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente
sopra le tre o quattro priorità che avete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare
questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede,
solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel
genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile.
Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né
di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese.
Affidati a Maria
Vi affido a Maria, che qui a Firenze si venera come
“Santissima Annunziata”. Nell’affresco che si trova nella omonima Basilica – dove
mi recherò tra poco –, l’angelo tace e Maria parla dicendo «Ecce ancilla Domini». In quelle parole
ci siamo tutti noi. Sia tutta la Chiesa italiana a pronunciarle con Maria. Grazie.
All the contents on this site are copyrighted ©. |