2015-11-07 15:42:00

Volontari carceri: in cella servono giustizia e misericordia


Si è concluso oggi a Roma il 48.mo Convegno nazionale promosso dal Coordinamento Enti e Associazioni Volontariato Penitenziario (Seac). Le nuove sfide di un organismo che dal 1967 costituisce una presenza attiva nel volontariato delle carceri e della giustizia. Il servizio di Davide Dionisi:

Definizione di un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere. Sono questi i principali temi discussi dai volontari del Seac, nella due giorni che si è conclusa oggi a Roma. Al centro dei dibattiti, le riforme, la giustizia e la misericordia dietro le sbarre e, non ultima, l’importanza del ruolo di chi sceglie di aiutare chi ha sbagliato e lo accompagna nel reinserimento nel tessuto sociale. Sono trascorsi 40 anni dalla legge penitenziaria, una legge avanzata e orientata a principi di umanità. Ma, tenuto conto della condizione degli Istituti di pena e delle condanne da parte della Corte Europea nei confronti del nostro sistema, cosa non ha funzionato? La risposta di Luisa Prodi, presidente del Seac:

R. – Non ha funzionato la capacità di far diventare fatto concreto il dettato di legge, che invece era un dettato molto aperto, anche molto umano. Un po’ di cose sono cambiate, perché sono cambiati i tempi: in questi 40 anni noi abbiamo maturato l’idea che la pena non necessariamente deve coincidere con il carcere, a livello teorico; a livello pratico non ci siamo ancora. Quindi, siamo ancora ancorati ad una visione che vede il carcere al centro e eventualmente delle pene alternative. Dovremmo cambiare il paradigma, rovesciandolo completamente, vedendo delle pene svolte all’interno della comunità, della società e nei casi più gravi ricorso al carcere. Questo rimane ancora un po’ troppo nella sfera dei buoni propositi… Non stiamo facendo passi concreti per arrivare, invece, a farlo diventare prassi.

D. – A proposito del volontariato, cosa spinge una persona a maturare una scelta così importante al fianco dei detenuti?

R. – L’idea e il desiderio di cambiare qualcosa nella società in cui vive probabilmente. Partire da motivazioni, che possono essere le più diverse: motivazioni di fede, motivazioni di un senso civico, di un senso umano… Quello che accomuna i volontari è il desiderio di accompagnare delle persone verso un cambiamento. Quando le persone sono persone che hanno sbagliato o che hanno contravvenuto a regole della vita sociale, questo è particolarmente impegnativo. Noi lo vediamo come un accompagnamento della persona in un percorso di cambiamento personale, ma anche un accompagnamento della società a una maggiore apertura e a un maggior senso dell’inclusione, che direi in questo momento è completamente assente dalla nostra visione.

D. – Barriere e pregiudizi. Quale contributo può dare il volontario per abbatterli?

R. – Mostrare che, in qualche modo e in qualche esperienza concreta, è possibile. Quando noi – per esempio nelle scuole – facciamo qualche giornata o qualche ora di riflessione con i ragazzi, magari invitando a parlare una persona in permesso, loro vedono che è una persona umana – che magari è un padre, che è una persona come loro – e questo cambia molto. Finché c’è questo isolamento del carcere, rispetto all’esterno, i pregiudizi rimarranno fortissimi. In questo senso, è necessario far diventare la pena un’altra cosa, perché la persona che ha sbagliato non sia isolata dalla società, ma sia dentro la società e faccia un percorso di restituzione – chiaro, visibile – assieme alla comunità che lo deve accogliere.








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