2015-11-07 14:30:00

Birmania, vigilia delle prime elezioni libere dopo 25 anni


Il presidente birmano, Thein Sein, ha assicurato che il governo e l'esercito intendono rispettare i risultati delle elezioni di domani, che vedono come favorito il partito di opposizione guidato da Aung San Suu Kyi. Nel Paese si vive la vigilia di una tornata storica, con le prime elezioni generali che da 25 anni non saranno boicottate dal principale partito di opposizione, la Lega nazionale per la Democrazia, della leader Premio Nobel per la Pace nel 1991. In lizza, 91 partiti e oltre sei mila candidati per la conquista di più di 1.150 seggi tra Camera alta, Camera bassa e Parlamenti regionali. Un quarto dei seggi è riservato ai militari al potere da diversi decenni. Sull’importanza di questo appuntamento, Eugenio Bonanata ha chiesto l'opinione di Cecilia Brighi, segretario generale dell'Associazione “Italia-Birmania insieme”, che si trova nel Paese per seguire la tornata elettorale:

R. – E’ il momento in cui si verificherà la volontà del vecchio governo di accettare i risultati elettorali e di impedire brogli o tensioni soprattutto nelle aree delle zone etniche. Quindi, è un po’ una cartina di tornasole di quello che è cambiato o che deve ancora cambiare nel Paese.

D. – Aung San Suu Kyi è favorita, ma ci sono alcune questioni che forse mettono un po’ in discussione la sua posizione?

R. – Nella zona centrale, dove c’è la maggioranza birmana, come etnia lei sicuramente è favorita rispetto al partito di governo. Negli Stati etnici, dove molti partiti etnici si stanno presentando, e dove si presenta anche la Lega nazionale per la Democrazia, c’è un rischio forte di dispersione di voti perché non sempre si riuscirà a formare un’alleanza. Poi, c’è anche la grande incognita di come il partito di governo e le forze che sono dietro al partito di governo si comporteranno il giorno delle elezioni. Molti pensano che il partito di governo riuscirà a dominare in queste aree: molta gente ha ancora paura che ci possano essere delle ritorsioni.

D. – Quanto peserà la questione dei Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata?

R. – A mio avviso, non peserà moltissimo. I Royingya, intanto, non votano perché è stata tolta loro anche la carta di cittadinanza temporanea. E nessun partito porta al suo interno rappresentanti di religione musulmana, proprio per evitare possibili tensioni con questo gruppo nazionalista di monaci buddisti legati a Wirathu, che è un monaco. Ecco, il non creare l’opportunità di un attacco di questa organizzazione molto radicale e anche molto violenta è una scelta quasi obbligata. Quindi, credo che la questione in queste elezioni – mi dispiace dirlo – non sia molto presente. Noi riteniamo giusto che ai Rohingya fosse data la cittadinanza e il diritto di voto, ma ci sono tante cose in questo Paese che non funzionano e che hanno bisogno di tempo e di grande tenacia perché possano essere modificate.

D. – Quali sono comunque le priorità del Paese?

R. – Le priorità del Paese sono la riforma della Costituzione, e quindi riduzione del ruolo dei militari e del potere dei militari, e l’eliminazione della corruzione che è diffusa in tutte le strutture pubbliche. L’altra emergenza è la pacificazione del Paese e questo significa anche il federalismo, perché gli Stati etnici non vogliono essere gestiti dalla capitale. Ancora oggi, il primo ministro di uno Stato etnico viene nominato dalla capitale. E poi c’è il grande tema della pace: il 16 ottobre è stato firmato un accordo di pace con alcune forze armate etniche, ma non tutte hanno aderito. Si tratterà di continuare per arrivare a un accordo di pace completo e questo significa che sia i militari sia il governo devono fare dei passi indietro, ma anche le Forze armate delle nazionalità etniche, perché lì ci sono anche forti interessi economici che spingono al mantenimento della situazione attuale, cioè di una situazione in alcune aree del Paese che è di conflitto e che permette quindi una serie di traffici tra cui – non ultimo – quello della droga.

D. – Come sta reagendo il Paese in questa campagna elettorale? Che tipo di attesa c’è?

R. – C’è molta attesa. Io ho incontrato parecchia gente che non pensavo mai potesse votare per Aung San Suu Kyi: c’è molta volta di cambiamento, c’è molta voglia di crescita. E il Paese non crescerà, non ci saranno investimenti, se non ci sarà stabilità che viene data dalla pacificazione e dallo Stato di diritto: che ci sia veramente una libertà di stampa, che ci siano veramente regole rispettate, che non ci sia più la corruzione. Quindi, le aspettative sono altissime, perché la gente sente ancora il peso del passato nella quotidianità, anche se c’è molta differenza tra come si viveva fino al 2010 e come si vive oggi dal punto di vista della libertà di movimento. Cioè, il Paese è sicuramente più libero però non è sicuramente un Paese più giusto, c’è molta strada da fare. E io credo che i Paesi, compresa l’Italia, si debbano impegnare proprio per aiutarli a cambiare.








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