2015-11-07 13:48:00

Afghanistan: donne in piazza dopo lapidazione ragazza


In Afghanistan, le donne sono scese in piazza, in diverse città, per protestare dopo la lapidazione di Rokhshana, 19.enne uccisa dopo essere fuggita alle nozze imposte dalla sua famiglia. Il presidente Ghani ha ordinato un’inchiesta per far luce sulla brutale morte della giovane: è il segno che qualcosa sta cambiando? Benedetta Capelli ha girato la domanda a Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus, dal 2003 presente in Afghanistan:

R. – Il problema è che il Paese dovrebbe cambiare nell’approccio culturale “in toto”. Si può parlare sicuramente di un segnale: un segnale da parte di un presidente che conosce la cultura del diritto, un presidente che ha usato termini fortissimi di condanna per questo atto. Ha parlato di “soluzione extra-giudiziale” perché non conforme alla legge: ricordiamo che la lapidazione in Afghanistan è vietata e condannata. Quindi, anche se si volesse far ricorso ad un’interpretazione della Shari’a più ristretta, la lapidazione non rientra comunque nella legge dello Stato islamico dell’Afghanistan. Il presidente ha parlato quindi di “atto non islamico e criminale” e questo è sicuramente un punto a favore della costruzione di un diritto diverso. Dopodiché, il problema vero è la pratica. In Afghanistan ci sono migliaia di donne che vivono situazioni di violenza domestica quotidiana: si parla del 90% delle donne. Non ci sono veramente soluzioni pratiche per coloro che vogliono uscire da questa condizione di violenza. Quest’anno, purtroppo, è stato un anno terribile per la questione delle donne. C’è stato l’omicidio di Farkhunda a marzo: un omicidio terribile che ha riportato alla coscienza i peggiori momenti di quello che è successo sotto i talebani.

D. – E spesso, quando ci troviamo di fronte a queste situazioni, si parla di un fatto culturale, come se fosse una tendenza inarrestabile. Ci possono comunque essere delle strade da perseguire? E quali sono ad esempio quelle che Pangea sta cercando di mettere in campo?

R. – Io sono molto speranzosa nelle nuove generazioni, perché vengono a contatto, attraverso i mass media e la tecnologia, con condizioni culturali anche di altri Paesi, di altri mondi, e anche loro hanno voglia di pace. E per costruire la pace, bisogna essere lì, in quel Paese: in Afghanistan. E noi come Fondazione Pangea ci siamo ormai dal 2003 in maniera fissa, perché pensiamo che solo stando accanto alle persone e investendo nello sviluppo economico e sociale di questo Paese si possano veramente costruire delle basi per sviluppare un futuro differente. Voler migliorare la propria condizione di vita in realtà non può essere fatto se, oggi come oggi, la comunità internazionale non è più presente. Purtroppo la situazione economica sta peggiorando tantissimo, perché la comunità internazionale è andata via dal punto di vista militare, ma non ha sostituito con una presenza di altro tipo – attraverso investimenti economici ad esempio – quello che era invece il peso economico e militare. E questo chiaramente sta prostrando l’Afghanistan, che si trova in una situazione economica terribile. E ciò vorrà dire che le donne soffriranno ancora molto di più se non si interviene in qualche modo.

D. – Donne che sono scese in piazza per fermare queste uccisioni e anche per rivendicare i propri diritti: quali sono però, effettivamente, i diritti che rivendicano?

R. – Il diritto di poter vivere e di poter scegliere la loro vita. Sono scese in piazza tantissime donne, ma anche uomini: la comunità afghana si è attivata a livello internazionale, ma anche la comunità di coloro che sono attivi per i diritti umani. E quello che si chiede è che non ci sia una giustizia sommaria!

D. – Anni fa, ad Herat, è stato costruito un carcere femminile nel quale sono recluse donne accusate di adulterio, anche solo immaginato, però donne effettivamente salvate anche dalla vendetta dei propri uomini e delle proprie famiglie. È un’esperienza che ha funzionato?

R. – Il vero problema è capire cosa succede dopo. Posso raccontare un’esperienza di una donna che voleva semplicemente salvare la figlia di 12 anni da un matrimonio forzato e invece il padre voleva costringerla a sposarsi. Noi, come Pangea, abbiamo aiutato questa donna e siamo stati vicini alla sua famiglia. Questa donna è finita in carcere e anche il marito. Quando la donna è uscita dal carcere, sono stati i suoi familiari ad ucciderla perché ormai aveva “disonorato” la famiglia. Bisogna veramente strutturare soluzioni solide per il dopo, perché solo questo permette alle donne di liberarsi da condizioni così strette che non danno veramente soluzioni.








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