2015-10-21 13:18:00

Congo. Scontri per il referendum di modifica costituzionale


Tensione nella Repubblica del Congo a causa degli scontri tra gli oppositori del Presidente in carica Denis Sassou-Nguesso e le forze dell’ordine. Spari, atti di vandalismo, case di politici incendiate si registrano tra Brazzaville e Point-Noire. Sei civili hanno perso la vita per i tiri della polizia, dieci i feriti, 16 gli arresti. I cortei non autorizzati mirano alla revoca del referendum di riforma costituzionale in programma per domenica prossima che potrebbe eliminare il limite di due mandati presidenziali. Massimiliano Menichetti ha parlato della situazione con il collega congolese Albert Mianzoukouta, del programma francese Africa:

R. – Non abbiamo ancora notizie su tutte le città del Paese, dell’hinterland. I collegamenti internet non funzionano più e quindi non sappiamo veramente quale sia la situazione. A Brazzaville però c’è una certa calma, anche se un po’ precaria, invece a Pointe-Noire ne parlavo al telefono con mio fratello che mi diceva: “Hai sentito? Hai sentito?”… Quelli erano spari e li sentivo anch’io.

D. – Le violenze per il referendum che vuole modificare la Costituzione per permettere una candidatura, un nuovo mandato, per il presidente in carica…

R. – Il problema è che nel 2002 l’attuale presidente ha messo in piedi una commissione con il compito di redigere una nuova Costituzione. Quest’ultima dice chiaramente che un presidente non può superare i due mandati, ognuno dei quali ha una durata di sette anni. Il presidente è arrivato al termine di questi mandati, ma ha pensato che forse, passando per un referendum, avrebbe potuto cambiare questa disposizione. Questo è il motivo per cui l’opposizione occupa adesso le strade: per chiedere che il referendum, previsto per domenica, non si faccia. Fino ad ora, il presidente non ha parlato e quindi si tratta di una situazione in cui, veramente, non si sa chi vincerà e come.

D. – La Conferenza episcopale ha chiesto di dialogare: qual è l’auspicio?

R. – L’auspicio sarebbe, prima di tutto, quello di fermare le violenze: che il presidente parli e che si cerchi un periodo di transizione. Tra l’altro, quello che accade adesso avviene anche prima della fine del mandato, quindi il presidente ha ancora davanti a sé un anno per pacificare gli spiriti. Però compete a lui trovare il modo, perché l’opposizione non si aspetta altro che la sua caduta.

D. – Ma perché queste tensioni adesso?

R. – Il Congo è un Paese esportatore di petrolio, esiste quella che si definisce come la “maledizione del petrolio”. Noi ci siamo caduti proprio dentro, perché chi arriva al potere comincia prima di tutto ad appropriarsi delle risorse. L’accusa che molti esponenti dell’opposizione rivolgono al presidente è che quest’ultimo abbia messo la sua intera famiglia intorno a questo problema della gestione del petrolio e che il Paese non guadagni invece più niente: il Congo non vede cioè il frutto delle risorse che è nazionale.

D. – C’è il petrolio, ma il Paese non ne beneficia: fa sì che le ricchezze siano ottenute da chi estrae il petrolio…

R. – Da chi lo estrae, da chi si trova nel circuito della gestione, tra questi molti dei suoi figli (del presidente - ndr). Dieci-quindici anni fa, quando il Congo vendeva il petrolio, su 100 dollari ne riceveva in cambio 10: il presidente è arrivato ad ottenerne fino a 36. Poi ha imposto, o ha negoziato con l’Eni, la Total Erg, un accordo di partizione della vendita del petrolio. Ma la gente ha l’impressione che questa risorsa, che dovrebbe appartenere al Paese, sia soprattutto in mano ai membri della famiglia stretta del presidente che ne traggono vantaggio. E questa sensazione crea un malessere che non può preparare al dialogo.








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