2015-10-13 15:09:00

Stop a traffico migranti: la campagna Vis-Missione Don Bosco


Un migrante su due non conosce i rischi del viaggio per l’Europa e sei su dieci si muovono per motivi economici. Sono tra i principali dati illustrati oggi durante la presentazione della campagna “Stop-Tratta – Qui si tratta di essere/i umani”, realizzata da Missioni Don Bosco e Vis e rivolta a Paesi di origine e transito dell’Africa Subsahariana: Ghana, Senegal, Nigeria, Costa d’Avorio ed Etiopia. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

Partono per l’Europa per ragioni di studio o di lavoro, ma senza sapere a cosa vanno incontro, e senza sapere quali rischi si corrono a non sapere nuotare o a non conoscere il deserto e la sua pericolosità. Il rapporto di Vis e Missioni Don Bosco delinea i contorni dei migranti economici che lasciano l’Africa Subsahariana, con un focus su Ghana, Senegal e Costa d’Avorio, Paesi da dove la percentuale di giovani che vuole partire si aggira attorno al 60 per cento. La consapevolezza dei rischi del viaggio non è però la stessa per tutti, laddove sono i ghanesi a sembrare totalmente ignari del destino che potrebbe attenderli. La riflessione di Nico Lotta, presidente del Vis:

R. – Da quello che ci viene detto dalle comunità salesiane in loco e dai nostri volontari, le vittime sono per la gran parte inconsapevoli e incoscienti dei rischi che vanno a correre. Una prima parte della campagna è stata proprio la raccolta di indagini, di interviste, di informazioni sul posto, andando ad intervistare le comunità a più alto tasso di emigrazione. In Ghana, otto migranti su dieci sono incoscienti dei rischi che vanno a correre e non considerano la morte come una possibilità. Se si fa una media in tutti i Paesi dell’Africa subsahariana, in cui abbiamo fatto questa intervista, uno su due non ha coscienza dei rischi e non mette in conto la possibilità di morire. Da questo nasce l’idea, da un’esigenza che viene manifestata dalle comunità locali salesiane e dai nostri volontari: il fare controinformazione, raccontare la verità, soprattutto ai giovani che si mettono in viaggio attraverso la migrazione illegale, attraverso i trafficanti di esseri umani.

D. – Sapendo quali sono le motivazioni, fortissime, che spingono queste persone a lasciare i loro Paesi, ad intraprendere viaggi così rischiosi, i vostri avvertimenti in qualche modo li dissuadono?

R. – C’è la seconda parte dell’azione: provare a studiare, anche con singole persone, dei progetti sostenibili. La parola chiave che vogliamo dare è quella della consapevolezza, il rendere coscienti di quale sia il rischio che si va ad affrontare. La seconda fase è provare ad immaginare insieme percorsi sostenibili, in chiave migratoria, ma provare anche a dare delle possibilità, restando nelle comunità di partenza, non con lo spirito di “aiutiamoli a casa loro” o “blocchiamo il flusso di migrazione”, ma cercando di assecondare il progetto di vita di ognuno. È una cosa ovviamente complicata, ma è questo l’approccio che vogliamo provare ad avere.

D. – Questo è il primo rapporto, che dati presentate?

R. – Quelli di interviste a gruppi target, che ovviamente non hanno la pretesa di avere un valore statistico, ma testimoniano i risultati di centinaia di interviste fatte nei gruppi da cui provengono la maggior parte delle migrazioni di quell’area. I dati che presentiamo sono proprio questo: il capire quale coscienza c’è dei rischi che si vanno ad affrontare; quali sono le falsità e le bugie che i trafficanti di esseri umani raccontano ai gruppi vulnerabili, per convincerli ad intraprendere il viaggio; e poi un’indagine che ci consente di capire quali sono i mezzi di comunicazione che meglio funzionano in ogni singola area: dai giornali ai social media, a incontri che fisicamente si possono organizzare nelle parrocchie e nei centri salesiani delle aree più remote. L’indagine ha vari aspetti: il capire le motivazioni; quali siano i mezzi di intervento più efficaci; il rendersi conto del grado di consapevolezza che hanno i giovani che si mettono in marcia.

D. – Ma questi uomini, soprattutto, non mantengono i contatti con il loro Paese di origine tanto da avvertire gli altri di ciò che loro stessi hanno dovuto subire?

R. – Quello che dice lei è assolutamente vero. Un aspetto è che, spesso, il descrivere il fallimento di un percorso migratorio non sempre avviene nella verità. In molti casi, cioè, ci si vergogna di dover ammettere un fallimento. L’altro aspetto è che non sempre le comunità dei salesiani, nelle zone più remote, hanno la possibilità di questo tipo di aggancio. I due aspetti quindi sono questi: la “vergogna” nel dover o tornare indietro o ammettere un fallimento, inoltre chi rientra normalmente nasconde, per la maggior parte, le violenze subite o le torture a cui è stato sottoposto, e magari viene visto come una persona che è arrivata, che ha una possibilità e che spicca nel resto della comunità. E’ un aspetto culturale molto delicato su cui cercheremo di intervenire. Ovviamente, interveniamo dall’estero come osservatori del fenomeno. Quello che ci aiuta nell’elaborare delle strategie sono le comunità salesiane, che sono lì da decine di anni, con molti salesiani locali, che quindi ci aiutano a capire, assieme alla comunità di intervento, quale sia la chiave comunicativa giusta per quella fetta di popolazione, che evidentemente non può essere un discorso generale per tutta l’Africa subsahariana.

D. – Avete in qualche modo anche monitorato ciò che accade regolarmente alle persone che arrivano in Europa provenienti da quei Paesi?

R. – Per i nostri dati siamo partiti da quelle che sono le comunità dei salesiani che in Italia fanno accoglienza dei migranti, ascoltando quella la loro prospettiva di partenza e quello che poi invece si sono trovati a vivere. L’altro gruppo target su cui lavoriamo sono i migranti di rientro, persone che hanno rinunciato al viaggio, che non sono riusciti a completarlo e grazie a Dio sono sopravvissuti, ma sono tornati a casa assolutamente in condizioni di impoverimento, sia reale che psicologico, in situazioni di grande frustrazione. L’aspetto di questa campagna è il lavorare in rete in maniera integrata. Proveremo a far passare i nostri messaggi a partire dai centri salesiani, ma anche in collaborazione con le diocesi, con le parrocchie, per dare la più profonda diffusione sia della parte informativa sia della possibilità di avere dei progetti di sostegno per realizzare dei progetti sostenibili. Ugualmente importante è l’azione che si fa in Italia sia di sensibilizzazione sia di accoglienza. Il problema dell’emigrazione non può più essere affrontato per slogan o facendo leva sulla paura, ma deve essere affrontato in tutta la sua complessità ed in tutte le sue fasi. Questo è quello che la campagna, nel nostro piccolo ovviamente, con le nostre forze si propone di fare: agire e intervenire, studiare, riflettere su tutte le tappe del percorso migratorio.

Obiettivo della campagna è quello di contrastare quindi il traffico di esseri umani sensibilizzando le potenziali vittime sui pericoli dei viaggi, e prevedendo inoltre progetti di sviluppo diretti a gruppi particolarmente vulnerabili e diversificati a seconda del Paese. 








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