2015-08-27 17:46:00

Profughi su rotta balcanica. Gli scempi a Palmira e i muri


"La gente non ce la fa più, è stremata e non vede prospettive. Di anno in anno è andata sempre peggio. Ormai non mi soprende più nessuna barbarie. La Siria multietnica e pacificata è purtroppo molto lontana". Alberto Savioli, archeologo italiano, ha lavorato quindici anni in Siria (anche a Palmira). Dallo scoppio delle primavere arabe collabora con il sito di informazione SiriaLibano.com. Lo raggiungiamo in Iraq (a nord di Mosul), dove si trova da quattro anni, impegnato nel progetto 'Terra di Ninive' dell'Università di Udine (www.terradininive.com). 

"E’ un martire della cultura e un uomo che, come tanti altri che conosco, non ha voluto lasciare la città in cui ha sempre vissuto, pur sapendo che avrebbe fatto una brutta fine". Savioli - che ha conosciuto la famiglia di Khaled Al Assad, l'ex direttore del sito di Palmira decapitato la settimana scorsa dai miliziani dell'Is - guarda con profonda tristezza al patrimonio storico artistico che la violenza dello Stato Islamico sta distruggendo, senza dimenticare però i civili che muoiono quotidianamente sotto i bombardamenti del regime (nel solo mese di luglio duemila persone vittima dei cosiddetti barili esplosivi). E racconta di quando l’anno scorso è stato testimone a Mosul dell’attacco dell’Is e della fuga delle comunità yazide e cristiane nel Kurdistan iracheno: "Scene apocalittiche. Una cosa terribile", commenta. 

"Tenendo conto delle dinamiche che hanno portato alla distruzione del tempio di Baal Shamin - spiega l'archeologo - mi sento di dire che anche il tempio di Bel non riposa in tutta sicurezza, ho molta paura che potrà essere il prossimo. L'Is sferra in questo modo colpi ideologici che mirano simbolicamente ad annientare dalle fondamenta quegli Stati costruiti negli anni Trenta e che non riconosce. Ricordo inoltre che in Siria e in Iraq i regimi baatisti e nazionalisti hanno utilizzato molto la cultura come elemento di promozione dei regimi stessi, appropriandosene per mostrare la grandezza attuale del loro passato. Quindi l’Is vuole anche distruggere uno strumento di propaganda". 

Alberto fotografa una realtà agghiacciante: "Di fatto le scuole sono chiuse da quattro anni nelle aree non sottoposte al controllo governativo. Ne è segno il fatto per esempio che adesso gli adolescenti che prima scrivevano in inglese non riconoscono più i caratteri latini quando usano il cellulare. Nella periferia di Damasco ci sono villaggi sotto assedio da due anni con bambini che muoiono di fame, c’è gente che cucina gatti e mangia radici". Eppure c’è un associazionismo timido locale che fa arrivare dei viveri, "ma sono palliativi", precisa Savioli, che ricorda la rivolta popolare di piazza del 2011 "a cui ha partecipato una società civile che dalla guerra è stata cancellata e messa da parte. Ora questa è lo stesso attore che tenta di sviluppare microprogetti in aree diverse a seconda delle specifiche carattestiche. Conosco persone che vi lavorano, gente che insegna ai bambini - con la scusa della scuola di computer - la storia della Siria quale era un tempo, non solo il Corano e la pratica religiosa. Oppure in altre zone ci sono persone che portano avanti consultori femminili per donne che hanno subito violenze, presidi medici dove mancano gli ospedali". 

Il problema sono i foreign fighters e le conversioni di tanti giovani. "Spesso essi hanno una conoscenza dell’islam superficiale e parziale. Sentono una crisi identitaria, non si sentono né tunisini, né siriani, né marocchini nei loro rispettivi paesi. E allora in questa realtà trovano una sorta di sovraidentità e un senso di rivalsa e di appartenenza in base al quale possono credere di vincere e non più di perdere". 

Intanto assume dimensione drammatiche lo spostamento di profughi lungo la nuova rotta che dalla Turchia si snoda per centinaia di chilometri attraverso Grecia, Macedonia, Serbia per arrivare in Ungheria. "Solo la scorsa settimana sono arrivate 21mila persone dalla Macedonia, tutte indirizzate verso l’Ungheria", riferisce Daniele Bombardi, coordinatore progetti di Caritas italiana in Bosnia e Serbia. "Si ammassano in improvvisati campi di accoglienza al confine serbo ungherese in attesa del momento buono per attraversarlo. Senza bagaglio, si muovono a piedi e con mezzi pubblici di fortuna. Moltissimi i bambini, le famiglie giovani con neonati di un mese o due. Questi paesi sono stati colti di sorpresa - sottolinea Bombardi - e sebbene comprenda le difficoltà di far fronte alla gran massa di profughi, devo dire che mancano molte strutture, si dorme completamente all’aperto da giorni e giorni, anche i più piccoli". Circa l'idea di impiegare l'esercito per i respingimenti? "A me sembra che la risposta militare sia poco corretta in questo momento. Hanno percorso migliaia di chilometri e vogliono raggiungere il nord Europa. Verrebbero semplicemente rimandati in Serbia e proveranno comunque ad entrare in altro modo. E poi non hanno creato nessun problema di ordine pubblico finora. Stanno cercando solo una seconda chance nella loro vita". 








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