Un riconoscimento per l’impegno a promuovere la pace in Centrafrica: è il premio Sergio Vieira de Mello, ricevuto ieri a Ginevra da tre leader religiosi centrafricani, l’arcivescovo di Bangui, Dieudonné Nzapalainga, l’imam Oumar Kobine Layam e il pastore protestante Nicolas Guérékoyaméné-Gbangou. I tre leader stanno girando insieme il mondo per dire che la religione non c’entra con la guerra nel loro Paese ma si tratta solo di strumentalizzazione. Ascoltiamo l’arcivescovo di Bangui, al microfono di Catherine Fiankan-Bokonga:
R. – Voir nos frères et nos sœurs souffrir et rester indifférents, n’était pas
…
Vedere i nostri fratelli e le nostre sorelle soffrire
e rimanere indifferenti, non era conciliabile con la fede che professiamo. Per questo
ci siamo messi insieme, per essere vicini, intanto tra di noi: questo è un fatto nuovo
nel nostro Paese. Certo, ci si incontrava, si scambiavano idee, ma mai avevamo messo
l’uomo al centro, mai avevamo condotto un’azione come una sola persona. Al contrario:
la crisi è diventata un’occasione per ritrovarci uniti. Noi abbiamo visto che la società
centrafricana era minacciata nella sua stessa essenza ed ecco perché era necessario
metterci insieme per salvare il popolo centrafricano che stava cadendo in un precipizio.
Oggi abbiamo quella che si chiama “unità”. Questa unità stava per essere spazzata
via e frantumata. Gesù ha predicato l’unità: “affinché siano uno”. Noi, in quanto
leader religiosi, non possiamo fare finta di niente … Ecco perché ci siamo uniti e
abbiamo chiesto ai nostri fedeli di mettersi insieme come noi, per pacificare i loro
cuori, gli spiriti e unire tutti per dire: “Noi dobbiamo essere tutti fratelli”. Gesù
è venuto ad annunciare la fratellanza universale per tutti: non soltanto i cattolici
e i protestanti ma tutti, tutti gli uomini fanno parte di questa fratellanza. Ecco
perché dobbiamo metterci insieme. Noi abbiamo teso la mano: l’imam è venuto da me,
io sono andato dal pastore protestante e viceversa e siamo diventati fratelli e continuiamo
a seminare questo messaggio di pace nel mondo e soprattutto nel nostro Paese.
Queste le parole dell’imam Oumar Kobine Layam:
R. – Ceux qui ont pris les armes, qu’on appelait
à tort des milices musulmans …
Quelli che hanno preso le armi, quelli che a torto
venivano chiamati “miliziani musulmani”, non hanno preso le armi per difendere il
Corano, ma per difendere gli interessi dell’islam e dei musulmani, cioè interessi
militari e politici. Quindi, noi siamo andati incontri a queste persone, ci siamo
rivolti a loro per metterli in guardia davanti al pericolo che si correva, di quel
che sarebbe potuto accadere. Nel momento della crisi acuta, il messaggio non era passato,
ma poi hanno finito per comprenderlo e oggi stanno tornando alla ragione. Noi pensiamo
che la comunità musulmana, che a sua volta era stata strumentalizzata dalle stesse
persone che avevano preso le armi, stia tornando alla ragione, stia iniziando a riunirsi
dietro ai loro capi, come me, per poter riportare la pace nel Paese.
Infine, la riflessione del pastore protestante Nicolas Guérékoyaméné-Gbangou:
R. – Avant la crise, on parlait tantôt des « protestants », tantôt des « évangéliques »
…
Prima della crisi, si parlava a volte di “protestanti”,
a volte di “evangelici”; grazie alla crisi, oggi si parla di “protestanti evangelici”:
questo significa che tutti si sono messi insieme dietro ad un leader che si impegna
per la pace al fianco dei suoi colleghi della comunità musulmana e della Chiesa cattolica.
Tutti hanno capito che, per ottenere la pace non c’è altro prezzo da pagare se non
quello di accettare di mettersi insieme, gli uni con gli altri, come “artigiani della
pace” che vogliono ritrovare la riconciliazione. Per questo io sono grato e fiero
di riconoscere oggi che la comunità protestante evangelica si è messa insieme dietro
al suo leader e che insieme, ora, parliamo con una sola voce.
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