2015-08-08 14:13:00

Nuovi attentati a Kabul mentre cresce la miseria


Una serie di attentati ha insanguinato negli ultimi giorni le strade di Kabul, riportando sotto i riflettori la drammatica situazione dell’Afghanistan. Almeno 35 i morti, in attacchi suicidi contro postazioni militari e forze di polizia da parte dei talebani e circa 400 i feriti. Un conflitto a bassa intensità in cui i civili pagano un prezzo altissimo, tanto che il 2015, denuncia un rapporto delle Nazioni Unite, si candida a diventare l’anno più pericoloso per gli afghani dal 2008. Sarebbero infatti oltre 1500 i civili morti e 3300 i feriti in soli sei mesi. Giacomo Zandonini ha raccolto la testimonianza del presidente di Fondazione Pangea onlus, Luca Lo Presti, appena rientrato da Kabul:

R. – La situazione nella capitale, nello specifico, non è particolarmente pericolosa, al di là del fatto, come si è visto ieri, che gli attentati non si possono mai escludere. Però, è vero che l’Afghanistan è un Paese che dal 2008 ad oggi ha visto un graduale peggioramento della situazione in termini di guerra e occupazione dei territori da parte dei talebani. La cosa che ho constatato, essendo a Kabul proprio in questi giorni, è che i normali spostamenti fuori città, che solitamente facciamo, verso alcune province come Jalalabad piuttosto che Bamiyan, oggi non sono percorribili in auto, perché le strade sono presidiate appunto dai posti di blocco dei talebani. Mi piacerebbe, però, anche ricordare che l’Afghanistan, in ogni caso, riporta dati agghiaccianti per quanto riguarda la mortalità materna e infantile, che è una tra le più alte al mondo – è il secondo Paese con la più alta mortalità dei bambini dai 0 ai 5 anni – per cui, al di là delle condizioni di guerra, le condizioni della quotidianità della vita non sono per niente migliorate, malgrado sia stato affermato da tutti i Paesi del mondo di voler portare la pace in quel Paese e di portare benessere... Considerate che sono stati investiti 600 miliardi di dollari dal 2001 ad oggi e Kabul, che è la capitale, è una città che ancora non ha le strade asfaltate e le fognature.

D. – Proprio le donne con cui voi lavorate quotidianamente stanno pagando un prezzo altissimo, ma allo stesso tempo sono un agente di cambiamento. Qual è il vostro lavoro e a cosa mira?

R. – La Fondazione Pangea ha cominciato nel 2002 proprio dalle donne e ha cominciato con 5 donne. Oggi abbiamo parecchie decine di migliaia di beneficiarie dei nostri progetti. C’è una capacità di ribellione, di rivoluzione da parte delle donne notevolissima. In questo ultimo nostro giro di monitoraggio sul progetto ho avuto comunque modo di vedere donne che ormai non portano più il burka o donne presentatrici in televisioni anche un poco più integraliste: le televisioni pashtun o quelle dei tagiki, dei mujaheddin. Diciamo che ci sono donne presentatrici nei tg e nelle trasmissioni. Poco alla volta la società cambia. Dovrebbe essere la pace il motore che dà la costante sul cambiamento, ma questo si costruisce giorno dopo giorno.

D. – Cosa significa per milioni di afghani convivere quotidianamente con la violenza, con il rischio di attentati, con l’insicurezza completa anche dal punto di vista economico?

R. – E’ proprio questo che si può notare in questi giorni. Tra il 2001 e il 2008 c’è stata una costante crescita verso l’ottimismo: si vedevano ristoranti, anche italiani, e si vedevano piccoli centri commerciali sorgere nella capitale, e quant’altro. Oggi, le speranze che erano state riversate anche nelle elezioni di questo presidente, che ha avuto molto consenso popolare, Ashraf Ghani, sono disilluse, perché poi i presidenti afghani non hanno grande possibilità di agire se non ci sono accordi internazionali forti. Quindi, la popolazione è in un costante barcollamento tra una fame, che prima non c’era – ho visto persone oggi, che non vedevo da tantissimi anni, mangiare solo zampe di capra bollite con una cipolla – e l’insicurezza del dormire. L’attentato che c’è stato ieri [venerdì 8 agosto, ndr] che va a colpire la popolazione civile di notte, in una zona altamente popolata, è un segnale forte del fatto che non c’è sicurezza. Per cui è difficile anche continuare a dare segnali di speranza, in questa crisi totale. Una cosa è certa: le scuole pubbliche non hanno i soldi per gli stipendi degli insegnanti e hanno solo tre ore di lezioni al giorno. Almeno noi con le nostre piccole scuole riusciamo a dare un segnale differente, a dare ogni giorno una costante presenza e attenzione per i bambini e per le donne, che possono così sperare in un futuro migliore.








All the contents on this site are copyrighted ©.