2015-08-07 15:00:00

A un anno dalla cacciata da Ninive, cristiani e yazidi stremati


Si concludeva un anno fa, il 7 agosto 2014, con la fuga notturna di migliaia di persone, l’esodo di cristiani e yazidi dalla Piana di Ninive, nel Kurdistan iracheno, in seguito all’avanzata del sedicente Stato Islamico nella regione. Chi è riuscito a scappare dalla violenza del “Califfato”, assistendo spesso a violenze indicibili, continua a vivere in campi profughi, in situazioni di estrema precarietà. Giacomo Zandonini ha intervistato Stefano Nanni, operatore umanitario in Irak con l’associazione “Un ponte per” e corrispondente di Osservatorio Irak dalla regione di Dohuk, dove si è insediata la gran parte dei rifugiati interni:

R. - Un anno fa, ma esattamente il 10 giugno, quando fu presa Mosul e tutti i villaggi e le cittadine circostanti, è iniziato un grande esodo che ha portato ad oggi circa un milione e trecentomila persone a rifugiarsi nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. A giugno ci fu la prima grande ondata che portò tante persone a spostarsi verso Erbil, soprattutto i cristiani. Erbil già da tempo era considerata una zona abbastanza sicura per la comunità cristiana e ancora oggi è possibile notare questo nel quartiere cristiano di Ainkawa, dove ormai tantissime persone stanno cercando di ricostruire una vita normale, il che purtroppo non è affatto facile. Successivamente, le altre offensive da parte del cosiddetto Stato islamico hanno portato altre ondate di persone ad occupare ancora di più la zona di Erbil e Sulaymaniyah. I primi dieci gironi di agosto, circa 500 mila persone sono fuggite nella provincia di Ninive, quasi al confine con la Siria. Ad oggi ancora 800 mila persone si rifugiano nelle provincia di Dohuk, dove si concentra la maggior parte degli sfollati interni.

D. - Moltissimi cristiani si trovano in una situazione di estrema difficoltà; sono rifugiati, si trovano ospiti in altre città, in alte zone del Paese … Qual è la situazione oggi, ad un anno dalla fuga di molte persone?

R. - Dopo un anno purtroppo la situazione non è migliorata, perché sappiamo tutti che gli scontri sul terreno non hanno portato a grandi riconquiste da parte dello Stato centrale iracheno, dei peshmerga e della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Migliaia di persone vivono nei campi profughi; nella provincia di Dohuk - dove mi trovo - ce ne sono 16. Questi campi oramai – è triste dirlo –  sembrano evolvere verso una situazione più urbana, ma mentre nei campi comunque ci sono, bene o male, dei servizi che funzionano più o meno regolarmente, è molto più confusa e complessa la situazione delle persone che vivono fuori dai campi. La generosità della popolazione locale dopo un anno è purtroppo diminuita. La prima grande emergenza è stata l’anno scorso con l’arrivo, poi c’è stato l’inverno, abbastanza duro, e ormai da tre mesi il caldo asfissiante, che oscilla tra i 40 e i 50 gradi, è un’altra questione molto seria. La situazione parla anche di una riduzione di fondi da parte dei governi verso la risposta umanitaria. E la prospettiva di ritorno è molto debole perché la situazione sul terreno di battaglia è molto confusa.

D. - Prima di questi terribili avvenimenti nella zona di Ninive coabitavano comunità religiose culturali molto diverse? Qual è ora la situazione?

R. - L’Iraq è un’area dove da sempre tantissime culture e religioni convivono. Lo Stato islamico non rappresenta che l’ultimo prodotto di politiche confessionali scellerate che si sono rivedute nel corso degli ultimi 15 anni. Le politiche confessionali che aveva adottato il precedente primo ministro Nouri al Maliki sostenuto dagli Stati Uniti dopo il periodo di post-occupazione e anche dall’Iran tendevano a favorire la componente sciita del Paese e a discriminare soprattutto la parte sunnita, e in generale tutte le alte minoranze. Questo ha portato negli ultimi quindici anni a una migrazione di molte comunità cristiane, yazide e turcomanne verso il nord del Paese. I cristiani in Irak erano 800mila/1 milione prima del 2003, oggi sono circa 500mila e tanti vogliono andare via. Nei giorni scorsi ero a contatto con delle famiglie cristiane rifugiate in un centro culturale assiro, a Dohuk, e la frase più comune è "non c'è più un posto sicuro per noi qui". Ci sono tante persone che stanno provando a arrivare in Europa o a uscire dall'Irak con mezzi illegali, e i prezzi oscillano fra 10 e 12mila dollari...








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