2015-07-26 10:10:00

Medici con l'Africa-Cuam: non abbassare la guardia sull'Ebola


La diffusione del virus ebola non è sconfitta del tutto, ma la fase più critica sembra ormai superata: questa la situazione in Sierra Leone colpita 16 mesi fa dalla più grande epidemia della storia, insieme a Liberia e Guinea dove ancora si registrano nuovi casi di contagio. A confermare il lento ritorno alla normalità sono gli operatori di “Medici con l’Africa-Cuam” che in Sierra Leone continuano a mantenere però alta l’attenzione. L’organizzazione umanitaria sostiene le strutture sanitarie locali dove si tornano a curare anche le altre malattie come la malaria e ad assistere le donne nel parto. Adriana Masotti ha sentito don Dante Carraro, presidente del Cuam:

R. – La situazione attuale è tale per cui i numeri complessivi si sono ridotti di molto, però l’epidemia non sta scomparendo: siamo passati da gennaio di quest’anno, dove ogni giorno si arrivava anche ad avere 180-200-220 casi al giorno, ad adesso che ci sono due-tre-quattro casi al giorno. Il problema è che fin tanto che non si arriva a zero, e quello zero viene mantenuto per 42 giorni - cioè il doppio del periodo di incubazione - fin tanto che non si raggiunge questa soglia, non si può parlare di un Paese “Ebola-free”. Ed essendo una malattia altamente infettiva, il rischio che l’epidemia riesploda rimane elevato. Quindi la guardia non può essere abbassata, in particolare per gli operatori sanitari.

D. – Secondo la responsabile del settore Progetti in Sierra Leone della sua associazione, la malattia si è adattata alla popolazione: che cosa significa?

R. – Significa che non ha più gli acuti che aveva in precedenza. La gente è diventata molto più attenta; per esempio tutta la pratica dei corpi dei defunti che venivano toccati, profumati in casa, secondo un antico rituale di questi Paesi: ecco queste pratiche non vengono più permesse e la gente ha accettato culturalmente questo fatto. In questo senso, la patologia si è adattata a una popolazione che è più attenta, ma non riesce ancora a sconfiggerla del tutto.

D. – In Sierra Leone, comunque, la popolazione ha voglia di tornare alla normalità: che cosa vuol dire normalità in questo caso?

R. – Io sono stato là nel pieno dell’epidemia varie volte, e quando vedi le strade semi-vuote, i fine settimana con il divieto di trovarsi nei luoghi pubblici - quindi quei baretti, piccoli centri di ritrovo vuoti - le chiese semi-vuote, il commercio zero assoluto, i mercati chiusi, la gente che non si tocca: ecco tutto questo è andato avanti per mesi e mesi! Le scuole sono state chiuse un anno, i bambini per strada! Allora la gente non ce la fa più, vuole tornare alla normalità, vuole poter celebrare un matrimonio, poter godere di un momento di festa, un compleanno… Tutto questo era vietato. Adesso, gradualmente, i segnali di questa ritrovata normalità stanno emergendo.

D. – Dover meno fronteggiare casi di Ebola permette ai medici di guardare con più attenzione alle altre malattie che comunque ci sono sempre…

R. – Il dramma vero della Sierra Leone è stato proprio questo: cioè tanti ospedali proprio per i tanti casi di Ebola sono stati chiusi. Questo vuol dire che patologie relativamente normali - come la malaria, una polmonite, una gastroenterite grave, una meningite, un parto non potevano essere garantite. E quindi ai decessi di Ebola si sono aggiunti purtroppo i decessi delle malattie normali. Non c’è dubbio che la scelta fatta dalla nostra Organizzazione in questo distretto sanitario di 350.000 abitanti - Pujehun - di mantenere aperti i servizi, sta portando i risultati sperati. Aver mantenuto i livelli di sicurezza elevata, da una parte, e aperto il servizio, dall’altra, via via sta dando alla gente la fiducia che è possibile entrare in ospedale. Ora i parti in ospedale e i bambini ricoverati stanno aumentando. Ed è un segnale di vita, di speranza, che è un fattore motivante altissimo per noi, perché siamo là per questo: per dare alla gente segni di fiducia e di speranza nel futuro.








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