2015-07-05 13:54:00

Belgio: eutanasia per depressione. Comitato bioetica: non arrendersi


Un nuovo drammatico caso di “eutanasia” sta scuotendo il Belgio. Laura, 24 anni e una grande passione per il teatro e la fotografia, ha scelto di morire perché depressa sin da bambina. Accadrà quest’estate in data da stabilire. La legge lo prevede in quanto considerato caso di “sofferenza psichica insopportabile”. ”La mia famiglia - ha detto la giovane - sa che è la soluzione migliore per me”. Continua dunque a crescere nel Paese, come ha già denunciato la Conferenza episcopale belga, il clima eutanasico contrario alla fraternità e alla solidarietà. “Non possiamo arrenderci”, ha ribadito al microfono di Gabriella Ceraso, Assuntina Morresi membro del Comitato nazionale di bioetica:

R. – Siamo arrivati al punto in cui la morte può essere una soluzione per ciascuno di noi, anzi lo Stato ce la deve somministrare se la chiediamo. Non possiamo pensare che la depressione di questa ragazza sia un caso eccezionale: se il dolore psicologico è un dolore insopportabile, ho il diritto di essere ucciso! Il dolore insopportabile nella vita, purtroppo, capita a tutti molto spesso.

D. – In Belgio, il caso di Laura rientra in una cinquantina l’anno, pari al 3 per cento di tutte le eutanasie effettuate in questo Paese, che l’anno scorso ha legalizzato le procedure di fine vita per i bambini e che sin dal 2002 va avanti molto rapidamente in questo tipo di legislazione. Perché questa prassi sempre più disinvolta?

R. – Il Belgio semplicemente è il primo che percorre tutto il percorso logico dell’eutanasia. Il fatto è che nel momento in cui si ammette che un medico possa dare anche la morte su richiesta, cambia pure la mentalità dei medici: cambia il modo di trattare e di affrontare la sofferenza, di rapportarsi con i pazienti. Ciò facilita, quindi, l’approccio a una morte su richiesta. E questo in Belgio è la novità più inquietante.

D. – Cosa manca o, invece, cosa ha acquisito una cultura o una civiltà per arrivare a fare queste scelte?

R. – C’è la paura a dire: “Io non ce la faccio”! Probabilmente siamo una società che non fa più figli, una società in cui le relazioni umane sono sempre più povere dal punto di vista non solo della quantità: abbiamo sempre meno fratelli, sempre meno parenti; le famiglie sono sempre più fragili e in questa fragilità di rapporto – in generale – in questo clima di sempre maggior solitudine, uno pensa sempre più spesso che non ce la fa… E se non ce la fa chiede allo Stato, che alla fine è l’unica istituzione presente, di farla finita.

D. - Se lo Stato non autorizzasse, forse si potrebbe non arrivare a questa decisione e quindi scegliere altre strade: Laura, per esempio, ha incontrato casualmente un’altra coetanea che stava organizzato proprio la sua eutanasia e da qui sembra essersi convinta che questa fosse la strada giusta…

R. – Sicuramente questo è vero: se addirittura fra i servizi che lo Stato offre c’è anche la possibilità di ucciderti su richiesta, è ovvio che è contemplata come soluzione.

D. – Però, vogliamo dirlo, tutto ciò succede anche quando ci si dimentica che la vita non è nostra: la vita ha un’origine che trascende da noi o no?

R. – Sì. Io credo che nel nostro continente, oltre ad una scristianizzazione, si sia proprio chiusa una domanda, un desiderio di qualcosa: si censura il fatto che noi passiamo la vita desiderando qualcosa di grande e prendendo sul serio questo desiderio. Ecco, questa cosa è come censurata, è come spenta, è come soffocata. Quindi se uno non ce la fa più, la fa finita. Ma non dobbiamo abituarci, perché l’assuefazione a questo clima di morte è quanto di peggio possa succedere.








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