2015-07-02 15:01:00

Le Caritas a sostegno degli immigrati sfruttati in agricoltura


Ci sono luoghi dove diritti e legalità sembrano parole sconosciute come le tante terre in cui il lavoro agricolo è svolto da immigrati malpagati e costretti a vivere in condizioni inaccettabili. In Italia, secondo le fonti ufficiali, sarebbero 5.400 le vittime di sfruttamento lavorativo, ma il dato appare largamente sottostimato. Di questo si è parlato all’Expo di Milano in un Convegno dal titolo: “Cibo, terra, lavoro: i migranti economici nell’area del Mediterraneo”, promosso dalla Caritas italiana. Un’occasione per presentare il Rapporto 2015 del “Progetto Presidio”, finanziato dalla CEI e coordinato dalla Caritas nazionale, a cui aderiscono 10 Caritas diocesane e che ha l’obiettivo di garantire una presenza costante di operatori sui territori interessati al fenomeno per offrire aiuto e assistenza ai lavoratori stranieri. Duemila quelli incontrati finora. In maggioranza uomini, gli immigrati provengono da Burkina Faso, Ghana, Marocco, Tunisia, ma anche Romania e Bulgaria. Tra loro, le donne affrontano condizioni di vita e di lavoro ancora più difficili, caratterizzate da segregazione, violenza, sfruttamento sessuale. Adriana Masotti ha intervistato don Raffaele Sarno, direttore della Caritas di Trani-Barletta-Bisceglie che al Convegno ha portato l’esperienza della sua diocesi:

R. – Il fenomeno è abbastanza consistente. Purtroppo soprattutto nelle campagne del Sud l’opera dei caporalati a volte diventa anche spietata, perché questi lavoratori vengono completamente sfruttati con paghe irrisorie che pertanto finiscono soprattutto nelle tasche di coloro li sfruttano. Noi cerchiamo di fare emergere un po’ tutto questo attraverso la presa di coscienza di questo sfruttamento e quindi conseguentemente la ricerca della dignità di queste persone.

D. – In quali regioni la situazione è più critica?

R. – Soprattutto in Campania e in Calabria la situazione diventa un po’ più drammatica.

D. – Quando si sente dire: “Va bene, i rifugiati possono anche rimanere in Italia, ma rimandiamo a casa i migranti economici”, lei che cosa pensa?

 R. – Mi viene in mente che c’è molta strumentalizzazione sotto questo punto di vista e non si tiene conto di quella che è la reale situazione. Noi ci rendiamo conto che, per esempio, anche da noi, senza il lavoro di questi agricoltori stranieri, alcune colture non potrebbero essere portate avanti e quindi c’è bisogno sicuramente di manodopera. E’ chiaro che poi bisogna fare il passaggio da una situazione di illegalità ad una situazione invece di rispetto per le condizioni economiche di queste persone. Questo è un po’ il lavoro che noi stiamo facendo. Cercare di sensibilizzare anche il territorio e quindi ottenere condizioni più dignitose per tutti loro.

D. - Ci dica qualcosa di più sul lavoro che state svolgendo nella sua diocesi…

 R. – Per quello che riguarda la nostra diocesi noi stiamo lavorando anche attraverso una convenzione con gli enti territoriali. Proprio l’altro giorno abbiamo firmato questo protocollo di intesa con i due comuni maggiormente interessati, in modo tale che il nostro non sia un lavoro isolato. Sotto questo punto di vista ci sarà la collaborazione piena dei comuni attraverso il segretariato sociale, attraverso anche la messa in comune delle proprie risorse, per la realizzazione concreta di percorsi di accompagnamento dei lavoratori.

D. – Chi sono i lavoratori stranieri con cui voi siete in contatto e per quale tipo di lavoro sono impiegati?

R. – Dipende un po’ anche dal tipo di coltivazione. Per esempio per la coltivazione di ortaggi è prevalente la presenza di cittadini rumeni, per la raccolta delle olive sono presenti in maniera particolare i cittadini del Maghreb e dell’Africa centro-meridionale… Ci sono molti irregolari presenti. Il problema più grosso, per esempio, per loro è il problema abitativo. Molti di questi lavoratori alloggiano in casolari abbandonati e quindi in condizioni igienico-sanitarie notevolmente precarie. Non a caso, uno dei nostri obiettivi è cercare di creare condizioni abitative che possano permettere loro di vivere in maniera un po’ più dignitosa.

D. – In sintesi, qual è il significato della vostra presenza lì dove esiste il fenomeno dello sfruttamento agricolo?

R. – La nostra presenza è soprattutto il voler garantire la dignità di queste persone. Il più delle volte vengono considerati semplicemente manodopera, magari utile per l’agricoltura, utile per l’economia della zona, ma semplicemente manodopera. Per noi non sono semplicemente mani che vengono utilizzate per il lavoro dei campi. Per noi sono persone che sicuramente hanno abbandonato situazioni molto precarie nei propri luoghi di provenienza per trovare qui opportunità di lavoro e di vita migliori. Noi li vogliamo accompagnare proprio perché vogliamo rispettarli come persone e perché vogliamo che effettivamente realizzino pienamente le loro aspettative di vita.








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