2015-05-25 14:40:00

Rohingya in fuga abbandonati in mare, urge risposta Paesi Asean


Il dramma dei profughi, in massima parte di etnia Rohingya, in fuga dal Myanmar, bloccati in mare da settimane, attende ancora una risposta risolutiva. Indonesia e Malaysia si sono dette disposte ad accoglierli, mentre la Thailandia ha preso tempo, in attesa della Conferenza dell’Asean, l’Associazione dei Paesi del Sudest asiatico, che si terrà il 29 maggio a Bangkok sulle  “Migrazioni irregolari nell’Oceano Indiano”.  Dopo l’allarme umanitario lanciato dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, si è levata - ieri all’Angelus - anche la voce del Papa per richiamare la comunità internazionale a fornire aiuto a queste persone perseguitate e abbandonate a loro stesse. Roberta Gisotti ha intervistato Massimo Pallottino della Caritas Italiana:

D. – Sono passati 40 anni dall’ondata dei boat-people vietnamiti: la storia sembra ripetersi?

R. – La storia sembra ripetersi, purtroppo, perché i Paesi e i popoli non si prendono le loro responsabilità. E’ in forma asiatica quello che vediamo, purtroppo, tutti i giorni ancora nel Mediterraneo. Almeno in Europa l’approdo lo trovano, mentre invece in Asia alcuni Paesi hanno chiuso le loro coste, hanno ributtato a mare i barconi. In più è stata – paradossalmente – proprio l’iniziativa di alcuni di questi Paesi, in particolare la Thailandia, nel dare una stretta nella lotta contro i trafficanti, che ha messo ulteriormente in pericolo le vite dei profughi, perché i trafficanti li hanno abbandonati in mare e sono scappati per paura delle possibili ripercussioni. Il problema vero, però, è in Myanmar: questi profughi sono di un popolo – il popolo Rohingya – che non ha nessun riconoscimento nella Costituzione e neanche nella legislazione del Myanmar e quindi non possono essere cittadini, anche se vivono da molte generazioni nel territorio del Myanmar, nel Rakhine State, verso il confine con il Bangladesh, e non si sa bene cosa sarà di loro.

D. – Cosa fare nell’immediato?

R. – Occorre veramente un’iniziativa regionale per richiamare il Myanmar alle sue responsabilità e per promuovere un’accoglienza. Senza diritti di cittadinanza non c’è soluzione a questo problema; soltanto attraverso i diritti di cittadinanza i profughi possono essere integrati all’interno del Paese in cui vivono da molte generazioni. In Myanmar si avvicinano le elezioni che saranno a novembre, e questo è un tema estremamente spinoso. Occorre un’iniziativa forte in Myanmar ed una presa di consapevolezza, anche da parte di tutti i Paesi dell’area che hanno lasciato vagare queste persone alla mercé dei trafficanti di uomini.

D. – Ma si sa che cosa ha scatenato questa migrazione di massa?

R. – E’ una situazione che affonda le sue radici in una storia che, come sempre avviene per i popoli di frontiera, è molto complicata, nel senso che i Rohingya sono un gruppo etno-linguistico che ha sempre vissuto per molte, molte generazioni nel Rakhine State, ed è di lingua diversa e anche di religione islamica. Dunque sono considerati stranieri da parte del Myanmar e sono considerati stranieri anche dal Bangladesh, che - a più riprese negli anni passati - ha attuato anche una politica di rimpatrio di questi profughi, che erano accampati nel suo territorio, per rispedirli verso il Myanmar. Ma il Myanmar a sua volta non riconosce l’esistenza di questo popolo, tant’è che nel discorso pubblico della politica del Myanmar non si può neanche dire “rohingya”, bisogna dire “bangladese” o “del Bangladesh”. Quindi questi profughi non hanno neanche il diritto alla loro identità. E, questo rimpallo continuo tra i due Paesi causa questo problema. Quando, qualche anno fa – ormai nel 2011 – si è avviato il processo di democratizzazione in Myanmar, questo è stato sicuramente un elemento di grande interesse per gli sviluppi che avrebbe potuto portare; allo stesso tempo, il forte controllo di polizia che c’era in Myanmar prima di quella data, si è allentato ed è aumentata anche l’effervescenza della società civile e quindi, in un certo grado, pure certe rivalità etnico-sociali-linguistiche che esistono all’interno del Paese. E, così all’interno del Rakhine State sono iniziate tensioni forti tra i Rohingya e i cittadini del Myanmar di etnia Rakhine-birmana, che poi sono evolute in tensioni più forti e in scontri. Molti di questi Rohingya vivono, in realtà, all’interno di campi e non hanno prospettive – a breve o a medio termine – di trovare una stabilizzazione. E’ una situazione che è completamente ferma. Questo produce tensioni che si acuiscono periodicamente e quindi da qui la fuga di queste persone per mare, anche via terra, attraverso la Thailandia – che non ne vuole sapere – e verso la Malaysia, cercando di andare ancora più verso Est. E’ di pochi giorni fa la notizia che sono state scoperte fosse comuni ai confini tra la Thailandia e la Malaysia, contenenti in massima parte proprio corpi di questi migranti che erano fuggiti e che sono stati abbandonati dai trafficanti, non voluti da nessuno degli Stati che attraversavano. E’ dunque una situazione veramente complessa che richiede una grandissima buona volontà, sia da parte delle autorità del Myanmar sia da parte di tutti i Paesi dell’Asean.








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