2015-05-12 15:58:00

Giornata dell'infermiere, testimonianza dai Paesi dell'Ebola


Si celebra oggi la Giornata internazionale dell’infermiere. La data ricorda il 12 maggio 1820, giorno in cui nacque Florence Nightingale, fondatrice delle Scienze infermieristiche moderne. Una professione talvolta non adeguatamente valorizzata, che invece è strategica nel rapporto medico paziente, tanto più se il contesto è infestato da una epidemia. Miguel Lupiz, infermiere italo argentino, ha svolto missioni con Medici Senza Frontiere in Niger, Colombia, Repubblica Centrafricana e, per l'emergenza Ebola, in Sierra Leone e Guinea. Tornato a metà aprile in Italia, sta per partire per l'Afghanistan. Antonella Palermo gli ha chiesto di raccontarci la sua esperienza tra i contagiati dal temuto virus:

R. – E’ stato molto diverso da tutte le altre: due mesi estremamente intensi, molto, molto duri. Molte persone arrivavano da noi al centro e morivano dopo poche ore, ma l’importante era che quelle poche ore fossero comunque ore degne di essere vissute da esseri umani.

D. – La paura?

R. – La paura c’è. Sarei stupido a dirti di no. Siamo protetti da protocolli ferrei. Noi abbiamo una zona di “high-risk”, fuori da lì per noi è una “low-risk”, cioè non è una “no-risk”. Non puoi mai abbassare la guardia: è uno dei motivi per cui le missioni che facciamo laggiù sono missioni più brevi, perché altrimenti lo stress diventa molto, molto elevato.

D. – Ci vuoi raccontare un incontro particolare, una situazione particolarmente difficile?

R. – Una particolarmente difficile è stata con una ragazza alla quale ho dato assistenza, mi ricordo, in una tenda. Quella ragazza, purtroppo, stava arrivando in fase terminale, iniziava ad avere emorragie diffuse, quindi, l’abbiamo tutta sistemata, lavata… A un certo punto, l’ho messa seduta sul letto e iniziava a perdere sangue dal naso e dalla bocca, però sorrideva ancora e mi diceva che stava molto meglio… Allora l’ho rimessa un po’ a posto e poi l’ho rimessa a letto. Mi ha detto: “Ci vediamo più tardi?” e io le ho detto: “Sì, ci vediamo più tardi”. Poi, quando sono tornato l’ho ritrovata e ha avuto giusto il tempo di stringermi la mano ed è morta lì. Ci ha segnato. Anche se fai missioni dure, dove alla fine niente ti viene risparmiato, però Ebola è risultata essere una nemica veramente crudele. Ma rimane il numero delle persone che abbiamo salvato garantendo una buona alimentazione, garantendo loro dei vestiti, che sono cose che a volte passano in secondo piano. In realtà, ci sono mille sfaccettature, ci sono le famiglie, gli amici, i parenti, le persone che sono state a contatto… Ed è un lavoro oserei dire mastodontico.

D. – Immagino che in quelle circostanze la soglia che distingue il lavoro del medico e il lavoro dell’infermiere si assottigli sempre di più: è così?

R. – Brava. Somministri le cure con i medici, i medici lavano i pazienti, si fermano a chiacchierare con loro, a giocare con i bambini… Noi spesso facevamo delle entrate insieme agli psicologi proprio per stare vicini alle persone, per cercare un contatto, anche se era un contatto protetto. Scrivevamo il nome sulla fronte perché le persone ci potessero riconoscere… Occhi negli occhi: tu lo cerchi, loro lo cercano… è decisamente terapeutico.

D. – Che situazione hai lasciato?

R. – Io ho fatto i salti di gioia quando ho sentito che la Liberia era “Ebola-free”. Allo stesso tempo, non bisogna abbassare la guardia. Perché? Perché in Sierra Leone comunque alcuni casi ci sono ancora e in Guinea, quando sono venuto via, al Centro avevamo circa 24 pazienti di cui 13 positivi.

D. – Cosa serve?

R. – In Guinea, soprattutto una sensibilizzazione ancora maggiore della popolazione, gli “health promoters”, che sono le persone che vanno a parlare nelle comunità, a spiegare quello che devono fare. L’Ebola si affronta e si batte così.








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