2015-05-08 12:51:00

Yemen. Proposta tregua umanitaria di cinque giorni, ma si combatte


L'Arabia Saudita e Stati Uniti hanno annunciato un cessate il fuoco di cinque giorni nella guerra in Yemen. Ora si attende il via libera dei ribelli sciiti houthi, ma scontri e bombardamenti sono tutt'ora in corso. E mentre oggi sono state promosse manifestazioni di massa in Iran contro l'intervento della Coalizione internazionale in Yemen, si apprende che un drone Usa avrebbe ucciso uno dei leader di Al Qaeda nel Paese. Il servizio di Massimiliano Menichetti:

Una tregua umanitaria di cinque giorni in Yemen è stata discussa e proposta durante un incontro ieri tra il  Segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri saudita Adel Al Jubeir a Riad. La tregua non sarà unilaterale, ma dovrà essere accettata dai miliziani sciiti houthi che avanzano nella conquista del Paese. In Yemen sono centinaia le vittime dal 26 marzo scorso, data d’inizio delle azioni guidate da Riad. Anche oggi si resitrano scontri e bombardamenti a Sadaa, luogo natìo del movimento houthi, oltre che sulla città portuale di Hodeida sul Mar Rosso, a ovest della capitale Sana'a.
Per ora comunque sia gli Stati Uniti sia l'Arabia Saudita hanno confermato che non stanno prendendo in considerazione l'invio di truppe di terra per il timore di azioni destabilizzanti nella regione da parte dell'Iran. E proprio in 770 località iraniane oggi sono programmate manifestazioni, organizzate dalle autorità, contro gli attacchi militari sauditi nella Repubblica presidenziale. In questo quadro il sito statunitense di intelligence “Site” informa dell’uccisione, da parte di un drone Usa, di Nasser bin Ali al-Ansi, uno dei leader di Al Qaeda in Yemen che aveva rivendicato l’attacco a Parigi contro la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo.

Per un'analisi della situazine abbiamo intervistato Eleonora Ardemagni, analista politica esperta dell’area mediorientale dell'Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale:

R. - È interessante notare come in questa fase, da un lato, la comunità internazionale sta cercando di portare avanti una proposta di tregua umanitaria, ma, al tempo stesso, il conflitto sta prendendo una piega ulteriormente militare.

D. - Insomma si cerca di mediare: formalmente si invita alla tregua, ma i bombardamenti e gli scontri continuano. Come leggere questo dato?

R. – Penso che prima di interrompere i bombardamenti, la coalizione guidata dall’Arabia Saudita intenda ottenere il maggior numero di risultati possibili sul territorio. Imprimere un indebolimento consistente alle milizie sciite per poter poi trattare – loro in quanto Paesi del Golfo – da una posizione di maggior forza possibile sul campo.

D. – Che ruolo giocano in questo contesto gli Stati Uniti?

R. – Stanno pressando l’Arabia Saudita in questa fase affinché si concretizzi questa tregua umanitaria. È stata la ragione del viaggio del segretario di Stato Kerry a Riyad in questi giorni. Probabilmente l’obiettivo è portare al vertice che ci sarà la settimana prossima – l’importante vertice di Camp David del 13 maggio, in cui Obama incontrerà i leader delle Monarchie del Golfo – un risultato, seppur fragile, di tregua temporanea. Tra l’altro, in questi giorni, il presidente riconosciuto legittimo dello Yemen, Hadi, ha convocato a Riyad, dove ora si trova, una conferenza di dialogo, che dovrebbe partire il 17 maggio, e che dovrebbe essere sostenuta anche dal nuovo inviato dell’Onu per lo Yemen. Quindi ci sono dei segnali anche sul campo che la situazione stia mutando.

D. – Vaste aree dello Yemen sono ancora nelle mani dei ribelli sciiti houthi, però è un gruppo tutt’altro che omogeneo…

R. – Si notano le prime crepe tra il movimento degli houthi, i ribelli del Nord, e il blocco di potere ancora fedele all’ex presidente, Ali Abdallah Saleh, che sembra in parte si stia progressivamente staccando dagli houthi. Ad esempio, lo stesso Saleh ha subito accolto le richieste di ritorno ai negoziati e questo potrebbe indurre alcune parti a staccarsi dall’alleanza strumentale con gli houthi.

D. – Però, il ritorno al tavolo di Saleh da più parti è stato anche osteggiato e respinto…

R. – Perché l’Arabia Saudita, che ha sostenuto per oltre 30 anni la presidenza Saleh, proprio grazie all’appoggio che Saleh ha dato ai miliziani houthi nel tentare di riprendere il potere, ha messo sotto pressione il confine saudita e ha permesso a una forza territoriale, politica, quella degli houthi - che secondo anche l’Onu e gli stessi Stati Uniti, viene finanziata, aiutata dal punto di vista militare dall’Iran - di prendere il controllo non solo della capitale yemenita, Sana’a, ma di vaste aree del territorio nel Sud del Paese.

D. – Per ora Stati Uniti e Arabia Saudita hanno escluso l’invio di truppe di terra nel Paese. Che cosa succederebbe se questo invece avvenisse?

R. – Sarebbe un’escalation drammatica nel conflitto. C’è da dire comunque che l’Arabia Saudita sta già addestrando miliziani yemeniti delle tribù sunnite del Sud per cercare di contrastare non solo l’avanzata degli Houti, ma anche quella di Al Qaeda nella penisola arabica, che sta traendo enorme vantaggio da questo vuoto di potere in Yemen. E oltretutto, pochi giorni fa, alcune fonti yemenite hanno sottolineato come militari sauditi ed emiratini, degli Emirati Arabi Uniti, di origine yemenita, siano arrivati nella città di Aden - che è ancora l’epicentro dello scontro tra le fazioni fedeli al presidente Hadi e le fazioni invece che stanno ancora con gli houthi e con l’ex presidente Saleh. Insomma, è una situazione ancora estremamente fluida.








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